Ti racconto il crollo del Rana Plaza e cosa è cambiato da allora nel mondo dell’industria tessile
Anna ha 16 anni e nonostante sia giovanissima, lavora ogni giorno: si è trovata un’occupazione in una fabbrica, come molte altre ragazze e donne della città. Lì è riuscita anche a farsi delle amiche con cui ogni tanto scambia qualche battuta – anche signore molto più grandi di lei, perché tanto in questo tipo di situazioni l’età conta fino a un certo punto, si è tutti molto vicini. Lavora in un palazzo imponente, il Rana Plaza, ha otto piani e si affaccia su una via molto trafficata. Nei piani più bassi ci sono una banca, dei negozi, e in quelli più alti delle fabbriche di abbigliamento, tra cui quella di Anna.
Però, la mattina del 23 aprile, mentre Anna sta lavorando, qualcuno arriva e grida: “Dovete uscire tutti, smettete di lavorare, uscite tutti, tutti, è pericoloso stare qui”. Fuori dal Rana Plaza c’è il caos. Tutte le persone che erano dentro si sono riversate fuori. C’è anche la polizia e dei giornalisti. Un giornalista passa il microfono a delle ragazze e chiede: “Avete paura?”. Loro rispondono: “Certo che abbiamo paura”. Poi interviene un ragazzo: “C’è troppo peso nel palazzo e ora c’è una crepa”.
Il giorno dopo, nonostante la banca e i negozi restino chiusi per ragioni di sicurezza, Anna e tutte le sue colleghe e colleghi devono tornare a lavoro. O così, o quel mese non verranno pagati. E Anna, come tutte e tutti gli altri, non può permetterselo, deve portare i soldi alla famiglia, contano su di lei. Quindi la mattina del 24 aprile si presenta a lavoro.
La prima cosa che avviene è il blackout, poi dei rumori fortissimi che provengono da chissà dove. Poi, ancora, come in un sisma. E quando Anna e le sue colleghe si alzano tutte per correre via è già tardi perché il pavimento è sparito da sotto i loro piedi e gli otto piani del Rana Plaza stanno collassando su se stessi.
Anna resta intrappolata per ore. Fa fatica a vedere perché ha gli occhi pieni di polvere. In realtà, è ricoperta di polvere dalla testa ai piedi. È dolorante, ma riesce un poco a muoversi, se solo non fosse che è incastrata, la sua mano è completamente schiacciata dalle macerie. La trova un ragazzo quando già è sera. Anna è cosciente ma la mano le impedisce di liberarsi. "Tagliala” dice al ragazzo. “Non mi importa della mano, salva la mia vita”. A lui basta un colpo d’accetta.
Questa è la storia del crollo accidentale di un palazzo con più vittime nell’ultimo secolo, con oltre mille morti e più di duemila feriti. Un crollo che, da un giorno all’altro, ha provocato una frattura nel Paese, ha scatenato rivolte e proteste in tutto il mondo, dalle strade alle università. E ha rappresentato un concreto punto di svolta nell’ambito della sicurezza sul lavoro, con migliaia di controlli e ispezioni e la chiusura di molte fabbriche ritenute non sicure. Purtroppo, come vedremo, non una soluzione definitiva, ma un importante punto di partenza per cambiare le cose.
Il giorno prima del crollo del Rana Plaza: l'evacuazione
23 aprile 2013, Dacca. Le migliaia di persone dentro il Rana Plaza vengono evacuate con la massima urgenza. Quella mattina sono spuntate delle crepe più grandi del solito ed è stato visto un pilastro della struttura piegarsi per il troppo peso. Banca, negozi, viene chiuso tutto. Ci sono degli agenti della polizia, ingegneri che ispezionano il palazzo. Tra questi c’è l'ingegnere Abdur Razak Khan, un uomo che farà parecchio discutere tutto il Bangladesh. Perché la notte prima del crollo Khan farà un’apparizione in una tv spiegando che quella mattina, dopo aver ispezionato il Rana, lo ha dichiarato non sicuro. E fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se solo a una settimana dal crollo, Khan non fosse stato arrestato con l’accusa di aver aiutato il proprietario del palazzo, Sohel Rana, ad aggiungere illegalmente tre piani al Rana Plaza.
Come e dove viene costruito il Rana Plaza
Sohel Rana, il proprietario dell'edificio, è un uomo molto potente. Il New York Times lo definisce “intoccabile come un don mafioso”. È un leader della Jubo League, un gruppo giovanile che fa riferimento a uno dei principali partiti del Bangladesh, nonché il più antico. È un uomo potente che ha legami con i potenti. Nel 2006 ha costruito con suo padre il Rana Plaza su uno stagno. Hanno fatto rimuovere l'acqua dallo stagno, lo hanno fatto riempire di cemento e poi ci hanno costruito sopra le fondamenta. Non esattamente il punto più stabile e sicuro per poter costruire un palazzo di questo tipo.
Il progetto iniziale prevedeva un edificio con meno piani e con dentro principalmente negozi e appartamenti. Ma successivamente Sohel Rana ha fatto aggiungere illegalmente, senza permessi né controlli ufficiali, altri piani, per un totale di 8, in cui mettere fabbriche per produrre abbigliamento. Le strutture che ospitano fabbriche sono diverse da quelle degli edifici adibiti ad appartamenti e negozi. Sono strutture industriali, progettate apposta per sostenere le costanti vibrazioni e le migliaia di tonnellate di peso di tutti i macchinari che servono alla produzione; ma anche il peso, ad esempio, dei grandi generatori di corrente. E dal quinto all’ottavo, i piani vengono costruiti senza muri di sostegno. Non è finita qui: al momento del crollo, Sohel Rana sta facendo costruire un nono piano.
Il giorno della tragedia la fabbrica tessile doveva rimanere chiusa
Quando il Rana Plaza viene evacuato, il giorno prima del disastro, è un grande evento di cui parlano tutti in città. E Sohel Rana stesso è chiamato a rilasciare delle dichiarazioni. Dice: “Non è una crepa. È del gesso che è venuto via da una trave. (…) L’hanno fatta sembrare una cosa grande”. Nonostante questo le autorità insistono che il palazzo debba rimanere chiuso, che bisogna aspettare che gli ingegneri facciano un’adeguata e approfondita ispezione. Ed effettivamente vengono mandati tutti a casa. Ma il giorno dopo, nonostante i piani più bassi resteranno chiusi, cioè quelli della banca e dei negozi, quelli più alti, con le fabbriche, resteranno aperti e i lavoratori dovranno tornare al Rana Plaza, dove le crepe sui muri e sulle travi sono sempre più evidenti. Alcuni dei sopravvissuti riportano la stessa cosa: i proprietari delle fabbriche hanno minacciato che, se non si fossero presentati a lavoro quel 24 aprile, non avrebbero pagato loro lo stipendio – stipendio che va dai 40 ai 60 dollari al mese.
Le testimonianze dei sopravvissuti costretti alle amputazioni
Lavorano per poco, però, perché il Rana Plaza crolla intorno alle 08.57 del mattino. Muoiono in 1.134. Circa 2.515 persone vengono estratte vive dalle macerie, chi subito chi dopo giorni o, addirittura, settimane. Rahima sopravvive al collasso, ma è intrappolata nel cemento, come in una gabbia. In un’intervista a Bloomberg racconta che, ad averle dato forza, era stato il pensiero che a meno di mezzo km di distanza dalla sua gabbia di cemento, la sua famiglia la aspettava. Suo marito, sua figlia. In una capanna dal tetto di lamiera, ad aspettarla nell’unico letto singolo che avevano. Non avevano molto, ma era la sua casa, e la sua famiglia.
Pakhi ha 25 anni e due figli, anche lei resta intrappolata tra le macerie. Alla reporter della BBC Yalda Hakim racconta “Era come una tomba. Intorno a me non avevo né luce né aria, solo tre cadaveri. (…) Ho appoggiato la testa sopra uno di questi”. Viene trovata dopo 72 ore, ma ha le gambe completamente bloccate e i soccorritori sono costretti ad amputarle. Durante i soccorsi le amputazioni sono numerose – e tutte senza anestesia. Vengono effettuate con coltelli da macellaio, seghetti – qualsiasi cosa, pur di salvare le persone intrappolate o incastrate.
L’ultima sopravvissuta ad essere tirata fuori è Reshma, ha 18 anni – sopravvive sotto le macerie per 17 giorni e quando viene tirata fuori c’è una folla impazzita che la accoglie perché rappresenta un po’ la speranza della vita in un momento in cui si è completamente persa.
I problemi dell'industria tessile nel Bangladesh
Per il Bangladesh la tragedia del Rana Plaza è un vero e proprio punto di svolta. L’industria tessile, quindi tutto quello che riguarda il produrre e confezionare capi di abbigliamento, è una delle forze trainanti dell’economia bangladese, se non proprio una delle principali. Ma questo settore, assolutamente lucrativo per il Paese, si regge spesso sullo sfruttamento dei dipendenti, su condizioni di lavoro precarie e non sicure, mancanza di controlli, negligenza e corruzione.
Solo 5 mesi prima del crollo del Rana Plaza, il 24 novembre, a Dacca scoppia un incendio in una fabbrica, forse per dei cavi esposti. In molti restano intrappolati dentro perché le porte sono bloccate e non ci sono uscite di sicurezza. Non solo: tutte le finestre hanno delle sbarre di metallo. Muoiono in 117. Una mamma che ha perso la sua unica figlia nell’incendio, ha detto ad Al Jazeera di non aver ricevuto nessun risarcimento, chiedendosi: “E adesso come posso sopravvivere? Dipendevo da mia figlia”.
Il dolore per questo evento si è aggiunto a quello per il crollo del Rana Plaza, che ha una portata che non si era mai vista prima. Ha suscitato rabbia e indignazione tanto nel Paese quanto nel resto del mondo. In Bangladesh ha scatenato manifestazioni e vere e proprie rivolte – con migliaia di lavoratori che si sono riversati nelle strade delle principali città industriali per colpire negozi e fabbriche di abbigliamento. Durante il primo maggio, la Giornata Internazionale dei Lavoratori, in centinaia hanno manifestato nella capitale per richiedere condizioni di lavoro più sicure e la pena di morte per Sohel Rana – che, ancora oggi, insieme ad altri imputati, è a processo per il crollo.
I cambiamenti e le nuove consapevolezze su diritti e condizioni di lavoro
Il disastro del Rana Plaza ha messo in luce l’urgente necessità di un maggiore dialogo tra governo, datori di lavoro e sindacati sui diritti dei lavoratori. E per questo, a meno di un mese dal crollo, vengono avviate due iniziative importantissime. Una è l’Accordo sulla sicurezza edilizia e antincendio, che vincola giuridicamente marchi globali, rivenditori e i sindacati del Bangladesh. L’altra è l’Alleanza per la sicurezza dei lavoratori – un’alternativa guidata dalle aziende per le aziende che non hanno firmato l’Accordo.
Con l’Accordo e l’Alleanza, come riporta Equal Times, migliaia di fabbriche sono state ispezionate sulla sicurezza elettrica e antincendio e, ovviamente, sui rischi infrastrutturali. Lavoratori e datori di lavoro sono stati formati sulla sicurezza e sono stati apportati miglioramenti ai diritti e alle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche di abbigliamento. Il presidente dell’Associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh ha dichiarato che dopo il crollo, le due iniziative “hanno adottato una politica di tolleranza zero nei confronti delle violazioni della sicurezza” e che hanno “chiuso molte fabbriche ritenute non sicure”.
La strada però è ancora lunga, c’è ancora molto da fare per i diritti dei lavoratori e il Rana Plaza non è l’ultima grande tragedia del Bangladesh. Il 3 febbraio del 2016 un incendio scoppia in una fabbrica a Gazipur. Moriranno 4 persone – ma il numero delle vittime è contenuto perché accade di mattino presto e almeno altri sei mila lavoratori ancora devono arrivare in fabbrica.
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