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Il terremoto del 26 ottobre 2016 in centro Italia

Terremoto del 26 ottobre 2016: tre anni fa la notte della polvere e della paura

Il 26 ottobre del 2016 un terremoto di magnitudo 5.9 ha devastato decine di città e borghi dell’Appennino Maceratese, nelle Marche, decuplicando il “cratere” sismico aperto con le scosse del 24 agosto ad Amatrice, Arquata del Tronto e Accumoli. Tra le città ferite il 26 ottobre c’è anche Camerino, e questo è un ricordo di quella notte che ha stravolto la vita a decine di migliaia di persone.
A cura di Davide Falcioni
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Via Varino Favorino, Camerino. Questa mattina ho digitato questo indirizzo su Google, poi ho selezionato l’opzione Street View di Maps. È comparsa l’immagine di una bella stradina del centro storico: un terrazzo con dei gerani, dei portoncini di ingresso alle palazzine in mattoni antichi, la strada di sampietrini e due persone con delle buste della spesa, di ritorno da un negozio di generi alimentari. La fotografia – spiega Google – è stata scattata nell’agosto del 2015, un anno prima del terremoto che ha distrutto anche questa città. Oggi, a tre anni di distanza, il centro storico di Camerino è ancora una grande zona rossa dove si può accedere solo accompagnati dai vigili del fuoco per il rischio crolli. Via Varino Favorino esiste ancora, certo, ma persino per chi ci viveva è ancora impossibile raggiungerla. Sono trascorsi più di mille giorni, eppure il tempo sembra essere ancora sospeso.

Era il 26 ottobre del 2016 quando il terremoto ferì Camerino, gioiello dell’Appennino ai piedi dei Monti Sibillini, città sede di una delle più antiche università d’Italia (fondata nel 1336) e brulicante di studenti da tutto il mondo. C’erano state le scosse del 24 agosto che avevano causato 299 morti tra Amatrice, Arquata del Tronto e Accumoli, poi c’erano state centinaia di scosse di assestamento. Credevamo ormai che l’incubo che ci aveva costretti per due mesi a vivere nel terrore fosse finito; non potevamo immaginare che il peggio doveva ancora arrivare e che quel “cratere” sarebbe improvvisamente decuplicato: non solo città e borghi della Vallata del Tronto, nel sud delle Marche e al confine con il Lazio, ma anche  Camerino, Tolentino, Muccia, Visso, Ussita, Pievetorina e centinaia di altri luoghi avrebbero composto quello che – ancora oggi – appare come un enorme “buco nero” nel cuore dell’Italia.

Pioveva a dirotto il 26 ottobre. La prima scossa, delle 19 e 11, non la avvertii perché ero in auto, ma quando alle 21 e 18 la terra tremò ancora, e con una magnitudo di 5.9, ero in casa e fu difficile persino riuscire a rimanere in piedi, tanto fu violento lo scuotimento. Ho ancora nelle orecchie il boato, negli occhi i mobili che oscillavano, il terrore della mia gatta, Lola, fuggita dalla finestra sotto il temporale. E poi le persone in piazza, i loro sguardi interrogativi e preoccupati. Chi avrebbe mai potuto aspettarsi un nuovo e così violento terremoto solo due mesi dopo quello del 24 agosto? E che cosa ci sta accadendo? 

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L’INGV comunicò l’epicentro a Castelsantangelo sul Nera, provincia di Macerata, a una manciata di chilometri da Camerino, la città della mia compagna di allora, Chiara. Il pensiero corse a suo nonno Carlo, ultranovantenne, ex pediatra residente in una palazzina del centro. Ci mettemmo in macchina sotto la bufera e la scena che ci trovammo davanti appena arrivati in città fu straziante: il campanile della chiesa di Santa Maria in Via era crollato su una casa di studenti, sventrandola. I ragazzi che ci vivevano erano riusciti a mettersi in salvo scappando alla prima delle due scosse, quella delle 19 e 11. Fossero rimasti lì dentro la seconda scossa li avrebbe uccisi.

Centinaia di persone – compreso il dottor Carlo e suo nipote (Carlo anche lui) – attendevano disorientati nella stazione degli autobus: in mano avevano uno zainetto, o una busta, ma molti non avevano fatto in tempo a recuperare nulla e tutto quello che avevano lo indossavano. Ricordo bene gli sguardi di questi uomini, donne, bambini e molti anziani, improvvisamente diventati profughi, condotti verso due dei pochi luoghi sicuri di Camerino, un’autostazione e un palazzetto dello sport, adagiati sulle brandine blu preparate dalla Protezione Civile, una accanto all’altra, avvolti da coperte marroni tutte uguali: ho ancora davanti le lacrime, la disperazione eppure la dignità e la compostezza di ognuna di quelle persone che in una manciata di secondi avevano perso tutto, che nei giorni successivi e per molto tempo ancora sarebbero state costrette a chiedere aiuto ogni singolo giorno. Centinaia di famiglie in tutto il cratere avrebbero dovuto ricevere persino aiuti alimentari per oltre un anno, perché un terremoto non distrugge solo le case, ma spesso anche il lavoro e i legami familiari.

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In pochi ricordano il terremoto del 26 ottobre 2016, quella che in un libro il compianto Massimo Dell'Orso definisce "la notte della polvere"; in pochi sanno davvero cosa hanno dovuto vivere le popolazioni di Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo in quei mesi terribili. Pochi conoscono la sensazione di impotenza che si prova ad avere a che fare con una serie sismica, pochi sanno cosa vuol dire non disporre totalmente della propria vita e del proprio tempo, minacciato costantemente per mesi e mesi dal movimento delle faglie nel sottosuolo. Chiedersi ogni sera se dormire in macchina o in casa, preparare una "borsa terremoto" appoggiata a terra, accanto all'uscio, con dentro dei vestiti, lo spazzolino, biancheria pulita, dormire con le porte spalancate, in jeans e felpa per non farsi sorprendere in pigiama da una nuova scossa. Pochi, però, come chi ha vissuto quei mesi comprende il senso di abbandono, il tradimento della politica, la vacuità delle parole di chi sul dolore ha edificato carriere, sfilando sulle macerie tra selfie, annunci roboanti, promesse vane.

Scriveva nel 1971 il critico ed editore Carlo Antognini: "Il volto più vero delle Marche, anche se il meno appariscente, è quello di una regione di laboriosa e virile solitudine, abitata da gente avvezza a fare i conti con se stessa, a non ammettere niente di grande, niente di straordinario in nessun fatto e in nessun uomo; un popolo, dunque, che la pratica quotidiana del mare e dei campi ha reso taciturno, appartato, schivo alle facili aperture, e tuttavia più incline alla malinconia che alla tristezza, più all'interrogazione che all'angoscia".

E' vero, questo siamo e di questo dobbiamo andare fieri.

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