Sono per metà irpino e la tragedia del terremoto del 23 novembre 1980 l'ho vissuta nel dopo. Nella ricostruzione eterna, nelle ruberie, negli scandali, nel dolore dei sopravvissuti che non si erano rassegnati ad aver perso tutto, le persone case e un tetto sulla testa. Il titolo «Fate presto» del Mattino, diventato poi celebre grazie a una storica serigrafia di Andy Warhol poneva l'accento sulla macchina dei soccorsi inefficiente che faticò a mettersi in moto. In Irpinia e Lucania morirono 2.914 persone. Quella strage servì ad avviare la Protezione Civile in Italia. E servì a pensare che era fondamentale costruire abitazioni antisismiche.
Lontana da me ogni forma di polemica, ma nel momento del dolore ora che si contano le vittime del terremoto in centro Italia, si fa largo una riflessione: si può ancora far altro? Oltre la solidarietà, oltre il ‘dare una mano' a chi deve ricostruire, possiamo pensare che in un Paese ad altissimo rischio tellurico si possa, anzi si debba, imporre una cultura anti-sismica? Nell'educazione, nella costruzione, nella ricostruzione ma soprattutto nell'adeguamento degli antichi centri storici? Da troppi anni sentiamo dire le stesse frasi da sismologi e geologi. Sono le riflessioni del giorno dopo che siamo tristemente abituati a sentire. Le regole del giorno prima, quelle della prevenzione, quelle dei piani di zonizzazione, dei piani regolatori generali, di condoni e sanatorie edilizie, invece, non le sentiamo mai.