Mentre stiamo qui a elogiare l’eroismo della resistenza ucraina con l’eccitazione emotiva tipica della retorica bellica, la guerra, anche stavolta, in Ucraina, passa sul corpo delle donne. Stuprate, sfregiate, umiliate, segnate. Molte già vittime di tratta, rilevano gli osservatori internazionali. L'ufficio del procuratore generale dell'Ucraina, anche lei una donna, Iryna Venediktova, ha creato il sito https://warcrimes.gov.ua per denunciare abusi e violenze dei soldati russi con prove circostanziate per avviare processi legali, chissà quando, chissà come. I tempi sono infiniti.
Lo sanno le donne ruandesi, più di mezzo milione di donne violentate nel 1994 in soli cento giorni durante il genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati. Una barbarie che causò un boom demografico all’indomani della guerra, tutti bambini concepiti dagli stupri. Lo sanno le donne bosniache vittime degli stupri etnici, che hanno visto un barlume di verità e giustizia dopo decenni di lotte. Lo sanno le donne italiane di Marzabotto, stuprate dai soldati tedeschi, le donne siciliane stuprate dagli alleati americani, e quelle di tutta Italia, almeno 20.000 accertate, stuprate nel 1944 dai goumiers, soldati delle colonie dell’esercito francese nel 1944 e dagli stessi soldati francesi durante la “liberazione” del Paese. La guerra in Ucraina, che sentiamo più delle altre e più vicina a noi, sta violentemente restituendoci una verità sotto gli occhi: il corpo femminile, nella sua accezione biologica, nella sua nella sua capacità di procreazione, che in tempi di pace diventa forza e in tempi di guerra invece debolezza, è vulnerabile.
Alle donne ucraine in questo momento non interessa niente delle nostre “questioni di civiltà” o della necessità di una moda gender fluid che superi le differenze di genere facendo indossare una gonna a un uomo. A loro importa di arrivare a sera senza che qualcuno attenti al loro corpo, lo sfregi. Il loro corpo fragile, sì. Vulnerabile. Fino a un mese fa, a parlare della vulnerabilità e della biologia della donna era giusto uno sparuto manipolo di femministe bostoniane anni '70, additate dalla scintillante opinione pubblica come conservatrici, antiche, o peggio anti-femministe. Poi arriva la guerra e in un istante la vediamo tracciare solchi sui corpi e i volti stanchi delle donne ucraine, costrette a lasciare la propria terra per preservare la propria incolumità fisica. Immaginiamo di andare da Natalya, 33 anni, che ha avuto la forza di raccontare al Times di essere stata violentata ripetutamente da due soldati russi ubriachi che dopo averle ucciso il marito hanno abusato di lei davanti al figlio di quattro anni, che piangeva nelle vicinanze.
Immaginiamo di starle di fronte e dirle che la biologia non c’entra nulla, che lei è forte come un uomo, che di fronte alla forza bruta di un uomo, due uomini, non deve considerarsi sesso debole. Esaurita l’immaginazione, cogliamo l’occasione per riflettere su quanto vacui e ipocriti siano i nostri chiacchiericci quando confondiamo la parità fra i generi con l’uguaglianza tra i generi. “Quei combattenti di così tante cause, tutte quelle interminabili colonne, quei cortei verso la lotta e verso la morte. I loro canti, il clamore che si leva per un sì, per un no, o per meno ancora. La loro fretta di rispondere a questa misteriosa chiamata che li agglutina. Una confraternita nell’avventura, nelle piaghe, negli inni e nei giuramenti. La stessa che, una generazione dopo l’altra, li spinge verso qualche incomprensibile carneficina. E per ogni generazione ecco i più intelligenti, i più sensibili tra loro impegnati a dare un nome, dei nomi, a ciascun massacro, per spiegarlo e giustificarlo. A volte me lo chiedo: cosa abbiamo a che fare noi con dei pazzi del genere?”. Questo si chiedeva la scrittrice Alice Rivaz dopo la seconda guerra mondiale nel suo libro “La pace degli alveari”. Difficile risponderle.