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Studiare non serve a nulla. Ma ne siete proprio sicuri?

I giornali scrivono che studiare non serve a trovare lavoro. Ma i dati dell’Istat e di Almalaurea dicono il contrario. È la fiducia delle persone ad essere crollata.
A cura di Michele Azzu
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Studiare serve, studiare non serve a trovare lavoro. Come ogni anno, si accende il dibattito alla fine della sessione di esami universitaria, prima che inizino i nuovi anni accademici. L’ultima arriva dal Censis: il Centro studi investimenti sociali ha pubblicato un rapporto dal nome: “Il vuoto della sfiducia crescente nella scuola”. Secondo il rapporto, studiare non costituisce più un ascensore sociale, ovvero il passaggio a una condizione di vita migliore di quella di provenienza.

«Tra i nati tra il 1980 ed il 1984, la quota di coloro che, al momento del primo lavoro, hanno sperimentato una mobilità “positiva” rispetto alla famiglia di provenienza, è pari al 16,4%», dice il Censis. Continua: «Più marcato è l’incremento di coloro che sono scesi di posizione sociale: salgono al 29,5% nella generazione più giovane». Da qui il giudizio unanime, riportato su diversi giornali: “Meno si studia più si lavora”. Nulla di più sbagliato.

Il rapporto dell’Istat 2014 lo scrive in maniera chiara: «Il calo occupazionale risulta più contenuto tra i laureati. Nella riduzione del tasso di occupazione, diffusa a qualunque livello di istruzione, la flessione dei laureati è la più contenuta (dal 78,5% del 2008 al 75,7% del 2013)». E se andiamo a rileggere il rapporto Istat precedente, quello del 2013, si dice un’altra cosa: «Tra i laureati fa differenza la laurea di secondo livello». E ancora: «Il voto di laurea è sempre premiante».

Se non basta l’Istat ecco il XVI rapporto di Almalaurea, del 2014, sulla condizione occupazionale dei laureati. Che spiega come: «I laureati godono di vantaggi occupazionali rispetto ai diplomati. Sia nell’arco della vita lavorativa sia, e ancor più, nelle fasi congiunturali negative come quella che stiamo vivendo».

Insomma, laurearsi rappresenta ancora il migliore antidoto contro la disoccupazione. Meglio ancora se si proseguono gli studi dopo la triennale, e se si ottengono buoni voti. E allora perché dire che studiare non serve a nulla, o che meno si studia più si lavora? Il rapporto del Censis, in realtà, non dice proprio questo. Il punto è un altro: la fiducia negli studi è crollata. Da parte delle famiglie, degli studenti, perfino degli insegnanti: «Nel 33% degli istituti il personale è demotivato».

Al mito che diploma o laurea possano servire per la scalata sociale, non crede più nessuno. Eppure, lo scrive il Censis, la colpa non è della scuola, né dell’università. Il problema è che sono aumentate le disparità sociali. La mobilità sociale, scrive il rapporto, è: «Un meccanismo non fluido, condizionato in maniera pesante dall’influenza della provenienza familiare». Un dato su tutti: l’abbandono scolastico tra i figli dei laureati si attesta al 2,9%, sale al 7,8% tra i figli di diplomati ed interessa quasi uno studente su tre (27,7%) per i figli di genitori con al massimo la scuola dell’obbligo.

Disparità non solo della famiglia di origine, ma anche geografiche: buona parte del rapporto del Censis si sofferma sulla carenza e la mal distribuzione sul territorio nazionale degli asili nido. Come dire, il futuro lavorativo viene battezzato già al primo ingresso scolastico, dalle sue disparità. E se invece che salire di posizione sociale si scende è dovuto anche a: «Una strutturazione della domanda di lavoro troppo orientata verso le posizioni medio basse, soprattutto negli ultimi tempi».

C’è sempre meno lavoro. Con la crisi le disparità sociali sono aumentate, e, come è ovvio, il peso si scarica su chi proviene dai ceti più deboli. A pagarne il prezzo più alto sono i giovani, diplomati, laureati e con la terza media. Ma laurea e post-laurea rimangono ancora gli antidoti migliori alla perdita del lavoro, la maniera migliore per trovarne uno in linea con le proprie capacità.

Dice il Censis: «Il vuoto di fiducia che si sta allargando intorno alla scuola non dipende solo dalle dinamiche interne al sistema educativo. Manca nella nostra società un disegno condiviso di sviluppo socio-economico». Un disegno condiviso, una visione, ritrovare la fiducia. Ripristinare quel meccanismo per cui chi merita va avanti. Restituire agli emarginati della società le chance di una vita migliore. La risposta a questo vuoto di fiducia non può che essere politica.

Foto: Flickr Massimo Ankor (cc creative commons license)

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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