Se c’è un aspetto che alimenta il senso di sfiducia dei cittadini nei confronti del sistema giudiziario italiano è la sensazione dei “due pesi e due misure”. Una contraddizione in termini se si parla di giustizia, eppure è la realtà di cui hanno fatto esperienza i protagonisti della storia che vi stiamo per raccontare. Una storia che è solo apparentemente una vertenza di lavoro, perché dice molto sulle complessità del nostro sistema giudiziario.
Proviamo a riepilogare la vicenda, seppur in estrema sintesi. Ci sono alcuni lavoratori della SOGAF, società che opera nel settore delle pulizie, che si rivolgono a diversi Tribunali, con distinti ricorsi, per sollecitare un intervento del Giudice del Lavoro in merito alla loro condizione lavorativa. I ricorrenti spiegano di essere stati assunti appunto dalla SOGAF (per lo più con mansioni di addetti alle pulizie o alla manutenzione dei vagoni ferroviari), ma di aver lavorato in regime di appalto per Ferrovie dello Stato (Trenitalia) e RFI (Reti ferroviarie italiane). Il punto è che il lavoro veniva svolto con orari identici a quelli dei dipendenti di FS, usufruendo degli stessi periodi di ferie, utilizzando materiale e attrezzature di proprietà di FS e ricevendo direttive dagli impiegati di FS.
I lavoratori sono convinti dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con FS (che si snoda per un periodo che va dal 1999 al 2006) e dunque chiedono al Tribunale di accertare la natura illecita e fittizia della cosiddetta “interposizione di manodopera”. Tradotto in parole semplice: poiché appare evidente un rapporto di lavoro subordinato con FS (e non con SOGAF), i lavoratori chiedono di essere assunti direttamente da FS, con la ricostruzione della posizione lavorativa e la corresponsione delle differenze retributive determinate dall’applicazione del CCNL per i dipendenti di FS.
Fin qui, direte voi, nulla di strano. C’è una causa di lavoro, cui seguirà una decisione del Tribunale, l’eventuale appello delle parti e l’applicazione della determinazione finale. FS, ora Trenitalia, del resto, è società che ha sempre applicato con celerità le determinazioni dell’autorità giudiziaria e sono diversi i casi in cui ha assunto lavoratori dopo procedimenti simili. Il caso in questione, invece, è particolare. Perché, come vi mostreremo, il destino di lavoratori accomunati da esperienze, vicende e titoli simili, cambierà a seconda dei collegi che si occuperanno della determinazione giudiziaria.
Da un punto di vista strettamente teorico, la questione ruota intorno alla “sussistenza della fattispecie interpositoria”, disciplinata dalla legge 1369/60 (oggi abrogata e in qualche modo sostituita dall’entrata in vigore del dlgs 276 del 2003, senza che sia mutata la sostanza). Si tratta di disposizioni che sono pensate per difendere i lavoratori da forme di abuso conseguenti alla “dissociazione fra la titolarità formale del rapporto di lavoro” e il suo effettivo svolgimento. In buona sostanza, si vuole impedire che, tramite appalti fittizi, si possa venir meno a obblighi di natura legale o contrattuale. Detto in modo ancora più semplice, si configura un appalto illecito ogni volta che non è l’appaltatore a gestire direttamente il rapporto di lavoro, ma l’appaltante.
Nel caso di cui stiamo parlando, la vertenza dei lavoratori nasce da un aspetto specifico delle disposizioni di legge. Come sanciscono diverse sentenze della Cassazione, infatti, si riscontra un’illecita interposizione di manodopera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente le prestazioni lavorative, conservando per sé esclusivamente i compiti di gestione amministrativa del rapporto (la retribuzione, le ferie e gli altri adempimenti burocratici), mentre tutti gli altri aspetti del rapporto di lavoro, tra cui la gestione dell’esecuzione, l’organizzazione interna e la responsabilità del risultato finale, nonché il rischio d’impresa, restano di competenza dell’appaltante.
Ora, il punto è: nel caso degli operai SOGAF e della commessa per Ferrovie dello Stato, si è configurata questa casistica? La risposta dovrebbero darla i Tribunali, ovviamente. Il problema è che a operai con percorsi lavorativi simili o identici, sono state date risposte diverse e confliggenti.
Nell'agosto del 2015, ad esempio, la sezione controversie di lavoro, di previdenza e di assistenza della Corte di Appello di Napoli, nel rigettare il ricorso di Trenitalia contro una sentenza favorevole a uno dei lavoratori ex SOGAF, riconosce "l'esistenza dell'intermediazione vietata a causa dello sdoppiamento tra la direzione tecnica del lavoro, facente capo a FS, e la gestione amministrativa, appartenente a SOGAF", aggiungendo anche che "tra gli indici di assenza di autonomia organizzativa" da parte della società appaltatrice andava individuata "la mancanza di personale tecnico in possesso della professionalità richiesta per l'esecuzione dell'appalto". Dall'esame dei testimoni, inoltre, emergeva come gli operai si interfacciassero direttamente con personale FS, altro elemento che faceva propendere il giudizio a favore del ricorrente. Qualche mese dopo, un'altra sentenza di appello (4226/2015) dà ragione ad altri lavoratori SOGAF, riconoscendo le loro ragioni, in particolare perché appariva provato che il committente aveva esercitato sugli operai "in modo immediato tutti i poteri che ineriscono a un vero rapporto di lavoro, una forma di ingerenza tale da escludere del tutto la libertà di iniziativa dell'appaltatore, riducendolo a un semplice organo di trasmissione delle direttive".
Anche nel 2018 la Sentenza n. 322 /2018 confermava la Sentenza di I° grado dichiarando il diritto dei lavoratori, escutendo nuovamente i testimoni tra cui il responsabile Sogaf il quale tra l’altro dichiarava: “ il personale Sogaf era stato formato dai dipendenti Trenitalia […] anche per i piccoli interventi erano gli stessi referenti di Trenitalia che indicavano direttamente alle squadre, senza il mio intervento, le piccole manutenzioni da fare. […]” oltre ad escludere una sua presenza quale coordinatore, atteso che, per sua stessa ammissione era privo di quella competenza tecnica in quanto si dovevano occupare solo della pulizia dello scalo.
È bene sottolineare che in queste e in altre sentenze (oltre che nei giudizi di primo grado) i giudici riconoscono l'attendibilità dei testimoni ("le loro dichiarazioni sono apparse puntuali e specifiche") e non pongono obiezioni nemmeno quando si tratta di colleghi dei ricorrenti o lavoratori con altre cause in corso con FS. Del resto, le testimonianze concordano su una serie di punti chiave, come l'utilizzo di macchinari di FS da parte dei dipendenti SOGAF o la ricezione di direttive dal personale dell'azienda appaltante.
Stesso lavoro, stesso appalto, stessa vertenza: decisione opposta
È andata in modo diverso invece la causa promossa nel 2014 da un altro gruppo di 12 dipendenti, sempre per le stesse ragioni e con le stesse richieste. Stessa vertenza, stesse aziende coinvolte, stessa situazione, stesso Tribunale: esito completamente diverso. Peraltro, come beffa finale, dopo la sentenza sfavorevole di primo grado, ai lavoratori è toccato leggere una decisione della Corte d'Appello di Napoli che appare in contraddizione con numerosi casi precedenti. Nel rigettare il ricorso dei lavoratori SOGAF, infatti, nel novembre del 2021 i giudici scrivono cose molto diverse sul punto cruciale, ovvero la sussistenza della fattispecie interpositoria, non ritenendo si fosse configurato "quello sdoppiamento che si realizza in tutte le ipotesi di intermediazione vietata, in cui da una parte c'è il soggetto che retribuisce e sopporta gli oneri previdenziali ed assistenziali […], dall'altra vi è il soggetto in favore del quale viene erogata la prestazione, il quale la dirige e la controlla dal punto di vista tecnico, impartendo istruzioni ai lavoratori".
Mentre per gli altri collegi giudicanti la SOGAF non aveva personale e capacità per eseguire autonomamente l'appalto e ai fini della decisione era stato notato come i lavoratori avessero utilizzato materiale e beni di FS, stavolta si rileva che "l'uso di beni del committente non è indice automatico di irregolarità dell'appalto […] e non costituisce elemento di per sé decisivo per la qualificazione del rapporto in termini di appalto non genuino […] purché la responsabilità del loro utilizzo rimanga totalmente in capo all'appaltatore e purché attraverso la fornitura di tali mezzi non sia invertito il rischio d'impresa, che deve in ogni caso gravare sull'appaltatore stesso". Contrariamente a quanto stabilito dagli altri giudici che avevano deliberato su casi simili, per questo collegio nulla conta "che gli orari di lavoro erano coincidenti con quelli dei dipendenti di FS e che il personale di Trenitalia fornisse le generiche indicazioni sull'attività da svolgere".
Cosa abbastanza singolare, nella sentenza sono gli stessi giudici a riconoscere "l'esistenza di difformi orientamenti della giurisprudenza di merito, anche in ambito locale", quasi a volersi giustificare, ma si limitano a una scrollata di spalle, che traducono nella compensazione integrale delle spese processuali tra le parti. Quasi a voler evitare ai lavoratori l'ulteriore beffa di dover pagare anche le spese processuali della controparte. Poco di cui gioire per i dodici lavoratori, che hanno sperimentato sulla propria pelle la massima dei "due pesi e due misure", che poco ha a che fare col concetto di giustizia.
Ora, su quest'ultima vertenza, non resta che attendere il verdetto della Cassazione, che arriverà nelle prossime settimane e che potrebbe contribuire a restituire giustizia ai lavoratori.