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Opinioni

Starbucks paga gli stipendi a chi studia. E in Italia? Cosa fanno le aziende?

Negli Stati Uniti l’azienda Starbucks decide di pagare le lauree online ai dipendenti. In Italia, con la riforma dell’apprendistato e i tagli alle borse di studio, la formazione all’interno dell’azienda non esiste più.
A cura di Michele Azzu
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AP Photos/Kevin P. Casey, file
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La multinazionale americana del caffè Starbucks ha deciso di pagare gli studi universitari (solo per corsi online) ai suoi dipendenti, grazie a una partnership con l’Università dell’Arizona. Corsi totalmente gratuiti o parzialmente finanziati, a seconda dall’anzianità di lavoro in azienda.

In questo modo i dipendenti, che sono soprattutto giovani part-time che studiano, potranno formarsi mentre lavorano, senza pagare una lira. Iniziativa davvero importante sul piano economico nel contesto Usa, dove la formazione universitaria costa moltissimo, dove i giovani sono costretti ad usufruire di prestiti bancari ingenti per potersi laureare.

Una notizia di questo tipo, in Italia, sembra sconvolgente. Non si riesce a capire perché un’azienda dovrebbe spendere soldi senza un ritorno economico diretto, per attività che poi rischiano di distrarre i propri dipendenti, di farli andare via con un titolo che permette di ambire a qualcosa di meglio.

È il nodo della formazione in Italia, e dalla politica a Confindustria, tutti concordano nel dire che è la vera questione italiana sul tema del lavoro. Lo ha detto l’ex ministro Giovannini pochi mesi fa: “Gli italiani sono poco occupabili”, e dal governo Renzi concordano.

Perché la formazione – scuola, università, stage e tirocini – non prepara adeguatamente al mondo del lavoro. E come dimenticare i risultati dell'indagine promossa dall'Ocse che lo scorso ottobre ci metteva in fondo alla classifica nelle capacità linguistiche e al penultimo posto per competenze matematiche. Eppure se da una parte il nodo formazione è ampiamente riconosciuto come centrale, nella realtà nessuno interviene.

Con la semplificazione del contratto di apprendistato nel decreto lavoro firmato Renzi, questo contratto viene allargato ai lavori stagionali, senza più obblighi di assunzione, col piano formativo scritto semplificato. Si rende più leggero un contratto che – in teoria – doveva servire proprio a formare una persona per tre anni in vista dell’assunzione.

Come dire: tu mi servi, voglio renderti più capace e io azienda investo su di te. Ma l’apprendistato si è rivelato un flop (solo 2.4% dei nuovi avviamenti professionali nel 2013), le imprese italiane lo hanno recepito come rischioso – non si sa perché dato che l’assunzione alla fine dei tre anni non era obbligatoria neanche prima – e quindi ecco la semplificazione del governo Renzi.

Addio formazione all’interno dell’azienda, quindi. Bisognerà pensarci prima, all’interno del percorso di studi che si dilata fino alla soglia dei 30 anni. Ci sono le borse di studio pubbliche, di competenza regionale: Gli importi delle borse per uno studente fuorisede variano dai 3.500 ai 6.000 euro l'anno. E tra affitto, bollette, vitto, libri, vivere diventa impossibile. Anche integrando la borsa con le “150 ore”, il lavoro part-time in una struttura universitaria, che frutta altri 1.500 euro. Anche con una borsa lavorare è necessario, e la formazione ne risente.

Le Regioni che erogano le borse, poi, non ce la fanno più: dalla Puglia dove gli studenti manifestano per il mancato finanziamento delle borse, alla Lombardia dove duemila idonei sono rimasti fuori dalle graduatorie. Sono finiti i tempi delle regioni del nord, dove tutti volevano andare a studiare. E l’Università Bocconi ha di recente annunciato l'istituzione di borse di studio per studenti poveri, proprio a carico dell'università.

Il vero problema in Italia, dicono, è la formazione. Ma senza più apprendistato, con un sistema di borse di studio che non basta più, senza una volontà politica a cambiare il sistema chi risolverà il problema, al posto di Starbucks?

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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