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Sindacalista Soumahoro: “I ministri mettano gli stivali. Nei campi non manca manodopera ma diritti”

Aboubakar Soumahoro, dirigente sindacale  italo-ivoriano dell’USB: “Le condizioni dei braccianti di oggi ricordano quelle degli inizi del ‘900. Nei campi non manca la manodopera, mancano i diritti e servono competenze, non solo braccia da sfruttare. Prima di rilasciare dichiarazioni sensazionalistiche i ministri dovrebbero indossare gli stivali e scendere nei campi”. E sul coronavirus: “Solo noi abbiamo distribuito dispositivi di protezione individuali nelle campagne”.
A cura di Davide Falcioni
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Aboubakar Soumahoro, dirigente sindacale  italo-ivoriano dell'USB, ci risponde da Manfredonia, in provincia di Foggia, in un caldissimo pomeriggio primaverile e durante una giornata in cui migliaia di braccianti sono chini sui campi e dediti alla raccolta degli asparagi che ogni giorno finiscono sugli scaffali dei supermercati di tutta Italia. A lungo invisibili, oggi i lavoratori dell'agricoltura sono tornati al centro del dibattuto perché nell'emergenza coronavirus hanno il compito, fondamentale, di produrre, raccogliere e trasportare il cibo che finisce sulle nostre tavole. Peccato che però nelle campagne del sud Italia da anni i braccianti, sia italiani che stranieri, vivono in condizioni disumane, senza tutele né diritti, ingranaggi di un meccanismo produttivo che ancora oggi li relega ai margini della società, come schiavi da usare e all'occorrenza dimenticare. Soumahoro, coordinatore nazionale del settore del lavoro agricolo dell’Usb, è nelle campagne pugliesi proprio per difendere quei lavoratori.

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Tra Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci, due ghetti in cui vivono migliaia di braccianti che ogni giorno producono cibo per tutti. Loro però vivono nella miseria, spesso in baracche di lamiera, e sono costretti a fare la fame.

Dopo essere stati invisibili per anni i braccianti sono tornati i protagonisti non solo del dibattito politico, ma della stessa “sopravvivenza” di tutti noi perché è grazie al loro lavoro che viene garantito l'approvvigionamento di cibo nei supermercati. Ci descrive in che condizioni vivono?

Le condizioni dei braccianti di oggi ricordano quelle degli inizi del ‘900, quando lavoratori italiani e italiane vivevano nei tuguri, facevano la fame e le loro giornate erano estenuanti. Anche oggi nella filiera agroalimentare operano braccianti sia italiani che stranieri: sono sfruttati, vivono nella più totale precarietà e miseria non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale. Adesso siamo nel periodo della raccolta degli asparagi, fa molto caldo. A fronte di un contratto di lavoro che prevede al massimo 6 ore e mezza al giorno nei campi si lavora il doppio. Il salario è una miseria, non viene rispettato nemmeno il minimo previsto dal contratto, non vengono pagati gli straordinari e si lavora anche 30 giorni al mese, senza riposi. I braccianti si ritrovano in busta paga non più di 5 giornate lavorate al mese, così i padroni possono eludere le tasse ma ai lavoratori non spetta neanche la disoccupazione agricola. Ricordo che qui lavorano non meno di 50mila persone: la stragrande maggioranza sono italianissimi ma fanno la fame come gli stranieri, che vivono nelle baraccopoli senza acqua potabile, servizi igienici e costantemente sotto ricatto.

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Qual è il volume d’affari generato dalla filiera agroalimentare? Quanti, di quei soldi, finiscono nelle tasche dei braccianti?

Parliamo di 143 miliardi di euro all'anno, ma ai braccianti come ai piccoli agricoltori non rimane niente. Vivono nella miseria tutti, nessuno escluso, e ai finanziamenti europei sono pochi ad avere accesso. Oggi poi la regolarizzazione degli "invisibili" deve essere una priorità assoluta. Siamo in piena pandemia, ma ci sono migliaia di lavoratori che non sanno neppure cosa sia il distanziamento sociale perché vivono da anni confinati nelle baraccopoli.

Il ministro Bellanova ha spiegato che il covid ha tolto braccianti dai campi e in un’intervista sul Foglio ha detto che “è ora di regolarizzare i 600 mila clandestini per far ripartire l'economia”. Sembra che i braccianti esistano solo come ingranaggi della macchina produttiva, ma come abbiamo visto di quei 143 miliardi di fatturato non vedono neppure le briciole. Cosa pensi della proposta della ministra?

Nei campi non manca la manodopera, mancano i diritti e servono competenze, non solo braccia da sfruttare. Prima di rilasciare dichiarazioni sensazionalistiche i ministri dovrebbero indossare gli stivali e scendere nei campi. I braccianti sono esseri umani, persone e non solo lavoratori. Dovrebbero essere titolari di diritti in quanto uomini e donne, e non invece sulla base del loro reddito o del lavoro che svolgono. Lo stesso discorso vale ovviamente per migliaia di colf e badanti nelle nostre case, per i riders, tutte figure esposte a molti rischi in questa emergenza sanitaria. Tutte persone da regolarizzare con la massima urgenza che necessitano di un permesso di soggiorno immediato e convertibile, cioè duraturo nel tempo, un po' come ha fatto il Portogallo. Per questo abbiamo lanciato una petizione indirizzata al Presidente del Consiglio. Perché prima di essere lavoratori e lavoratrici stiamo parlando di esseri umani da proteggere. Le sembra normale che solo noi abbiamo distribuito dispositivi di protezione individuali nelle campagne?

Nel tuo libro – Umanità in rivolta (Feltrinelli) – il sottotitolo è La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità. Pensi che la pandemia possa essere per i lavoratori un’occasione di riscatto o più probabilmente l’ennesima occasione per tagliare sui diritti, come è accaduto dopo la crisi del 2008?

Dai medici agli infermieri, dagli oss ai braccianti, passando per colf e trasportatori, penso che questa sia l'occasione per interrogarci su chi siamo. Le scelte politiche degli ultimi anni hanno umiliato questi lavoratori, ma hanno anche distrutto l'ambiente. Adesso è il momento di trasformare l'egoismo in solidarietà: stiamo tutti vivendo sulla nostra pelle il confinamento e l'isolamento, senza distinzioni di nazionalità. Siamo tutti uguali. Da questa pandemia dovremmo uscire con una sola bandiera: quella dell'umanità.

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