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Sicilia, 23 fermi per mafia: c’è anche Matteo Messina Denaro, ma il super boss resta latitante

Maxi operazione porta al fermo di 22 persone, una sola non viene arrestata: il super boss Matteo Messina Denaro. Tra gli arrestati anche due poliziotti. I vertici della Stidda si riunivano nello studio di un’avvocata a Canicatti e si stavano ricompattando attorno a due boss, falsi pentiti, che godevano della semi libertà. Contatti anche con la famiglia dei Gambino di New York.
A cura di Giorgio Scura
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PALERMO – C'è anche Matteo Messina Denaro, il capo dei capi incredibilmente ancora latitante dopo 28 anni, tra i 23 fermi ai danni di capimafia e boss della Stidda (altra organizzazione criminale collegata a Cosa Nostra). I fermi eseguiti dai carabinieri del Ros sono 22, l'unico che manca è proprio Messina Denaro. L'inchiesta della Dda di Palermo ha colpito alcune famiglie mafiose agrigentine e trapanesi ed è coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall'aggiunto Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Gianluca De Leo. L'inchiesta riguarda anche un ispettore e un assistente capo della Polizia, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d'ufficio, e un avvocato.

Dalle indagini è emerso che nel mandamento mafioso di Canicattì, la Stidda torna a riorganizzarsi e ricompattarsi attorno alle figure di due ergastolani riusciti a ottenere la semilibertà. In particolare uno dei capimafia, indicato come il mandante dell'omicidio del giudice Rosario Livatino, avrebbe sfruttato i premi che in alcuni casi spettano anche ai condannati al carcere a vita, per tornare ad operare sul territorio e rivitalizzare la Stidda che sembrava ormai sconfitta. Per 2 anni i capimafia di diverse province siciliane si sono riuniti nello studio di un'avvocata di Canicattì, Angela Porcello, difensore di diversi mafiosi, e compagna di un imprenditore già condannato per associazione mafiosa. Il suo studio era stato scelto come base logistica dei clan perché la legge limita le attività investigative negli uffici degli avvocati.

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La donna aveva assunto un ruolo di vertice in Cosa nostra organizzando i summit, svolgendo il ruolo di consigliera, suggeritrice e ispiratrice di molte attività dei clan. Rassicurati dall'avvocato sulla impossibilità di effettuare intercettazioni nel suo studio, i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, un ex fedelissimo del boss Bernardo Provenzano di Villabate (Pa) e il nuovo capo della Stidda si ritrovavano nello studio, per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra. Le centinaia di ore di intercettazione disposte dopo che, nel corso dell'inchiesta, hanno consentito agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan, sulle dinamiche interne alle cosche e di coglierne in diretta, dalla viva voce di mafiosi di tutta la Sicilia, storie ed evoluzioni. Uno spaccato prezioso che ha portato all'identificazione di personaggi ignoti agli inquirenti e di boss antichi ancora operativi.

Dopo aver scontato 25 anni per l'assassinio del giovane magistrato Livatino, trucidato il 21 settembre del 1990 e da poco proclamato Beato da Papa Francesco, il boss Antonio Gallea è stato ammesso alla semilibertà dal tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio del 2015 perché ha mostrato la volontà di collaborare con la giustizia. L'altro capomafia attorno al quale la Stidda si sarebbe andata ricompattando ha scontato 26 anni ed è stato ammesso al beneficio della semilibertà il 6 settembre del 2017 e autorizzato dal tribunale di Sassari a lavorare fuori dal carcere. Anche lui avrebbe mostrato l'intenzione di aiutare gli investigatori. Una "collaborazione" che la giurisprudenza definisce "impossibile", in quanto entrambi hanno parlato di fatti già noti alla magistratura non apportando, dunque, contributi nuovi alle indagini, ma che ha consentito a tutti e due di beneficiare di premialità. Dall'inchiesta è emerso che gli stiddari sono tornati a far concorrenza a Cosa Nostra, con la quale alla fine degli anni '80 si erano fronteggiati in una guerra con decine di morti.

Stavolta la "competizione" tra le due organizzazioni criminali non ha ancora visto spargimenti di sangue, anzi le due mafie si sarebbero spartite gli affari. Come quelli nel settore delle mediazioni nel mercato ortofrutticolo, uno dei pochi produttivi della provincia di Agrigento. Dall'indagine viene fuori inoltre che gli stiddari avrebbero usato la loro forza intimidatoria per commettere estorsioni e danneggiamenti. Scoperto anche un progetto di omicidio di un commerciante e di un imprenditore, evitato grazie all'intervento degli investigatori. La Stidda – hanno scoperto i militari dell'Arma – poteva contare su un vero e proprio arsenale di armi.

Dalle carte è emerso come Matteo Messina Denaro, capomafia trapanese latitante da 28 anni, sia ancora riconosciuto come l'unico boss cui spettano le decisioni su investiture o destituzioni dei vertici di Cosa nostra. Anche il super boss è destinatario di un provvedimento di fermo, che è stato emesso per 23 persone, ma eseguito solo nei confronti di 22, visto che il padrino trapanese resta latitante. Il ruolo del boss di Castelvetrano viene fuori nella vicenda relativa al tentativo di alcuni uomini d'onore di esautorare un boss dalla guida del mandamento di Canicattì. Dall'indagine emerge che per di realizzare il loro progetto i mafiosi avevano bisogno del beneplacito di Messina Denaro che continua, dunque, a decidere le sorti e gli equilibri di potere di Cosa nostra pur essendo da anni imprendibile.

Diversi capimafia, come il boss ergastolano agrigentino Giuseppe Falsone, sarebbero riusciti a parlare tra loro, a scambiarsi messaggi – nonostante fossero detenuti al carcere duro – e a far arrivare ordini all'esterno. In alcuni casi, secondo le indagini, grazie alla complicità di alcuni agenti di polizia penitenziaria addetti ai controlli dei carcerati al 41 bis, a volte riuscendo, per falle del sistema, a eludere la sorveglianza e a passare informazioni a gesti senza essere intercettati. In particolare, dall'indagine è emerso che un agente in servizio nel carcere di Agrigento, durante un colloquio telefonico tra il boss ergastolano Giuseppe Falsone, ex capo della mafia agrigentina, e un'avvocata, fermata oggi con l'accusa di mafia, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell'incontro con Falsone. Il boss, inoltre, sarebbe riuscito a inviare messaggi all'esterno, perché in alcuni istituti di pena non viene controllata la corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e i propri difensori.

Sfruttando questo limite nella vigilanza Falsone, attraverso il suo avvocato, sarebbe riuscito a fare uscire dal carcere i messaggi che, in prima battuta, essendo destinati a terzi, erano stati censurati dal magistrato di sorveglianza. L'indagine ha accertato inoltre che boss di Agrigento, Trapani e Gela, tutti detenuti nel carcere di Novara, sfruttando inefficienze nei controlli dialogavano tra loro riuscendo anche a saldare alleanze tra cosche di territori diversi. Durante l'inchiesta, è stata anche intercettata una telefonata di un agente di polizia penitenziaria in servizio ad Agrigento all'avvocata indagata: i due avrebbero parlato di un assistito della legale, detenuto in cella per mafia. L'agente avrebbe informato la donna che il suo cliente l'indomani sarebbe stato spostato in aereo in un altro carcere.

Infine, pare non sono mai cessati gli storici rapporti tra la mafia siciliana e Cosa nostra americana scoperti già negli anni '70 da Giovanni Falcone. Lo conferma l'inchiesta del Ros. Dall'indagine è emerso che emissari statunitensi della "famiglia" dei Gambino di New York nei mesi scorsi sarebbero andati a Favara, nell'agrigentino, per proporre ai clan locali business comuni. Gli indagati rispondono a vario titolo di mafia, estorsione, favoreggiamento aggravato.

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