E meno male che dovevamo batterli con la cultura, i cinesi. Meno male che l’Europa doveva diventare l’economia della conoscenza, il faro del sapere globale, come da trattato di Lisbona del 2007. Meno male che l’Italia di questo vecchio e decadente continente doveva essere la culla e il faro, coi nostri saperi territoriali, i nostri geni poliedrici, la nostra stucchevole retorica sul Paese del Rinascimento.
Eccovelo qua, nero su bianco, l’attestazione del nostro fallimento. Si chiama Rapporto Pisa dell’Ocse e compara le conoscenze degli studenti quindicenni di 79 Paesi in tutto il mondo. I risultati, per l’Italia, sono sconfortanti, sotto ogni punto di vista.
È sconfortante che i migliori studenti del mondo siano i cinesi. E non perché sia scritto da qualche parte che dovremmo essere noi, i migliori, ma perché per vent’anni ci siamo raccontati la favoletta che la nostra economia sarebbe sopravvissuta alle merci a basso costo dell’estremo oriente grazie all’investimento in cultura, innovazione, ricerca, tecnologia che ci avrebbe sempre lasciato un gradino avanti rispetto a Pechino. Batteremo la quantità con la qualità, ci dicevano. Il risultato ce l’avete davanti agli occhi: i cinesi vendono ancora le loro merci a basso costo, ma adesso ci superano anche nel campo del sapere. Non solo sono tanti, sono anche migliori.
È sconfortante che di fronte a tutto questo, ci siamo arresi senza combattere. Non è un caso, né uno scherzo del destino cinico e baro se i nostri studenti sono peggiorati rispetto a dieci e a vent’anni fa in quasi tutte le discipline, molto più di quanto abbiano fatto gli studenti degli altri Paesi d’Europa. Da anni siamo uno dei paesi che spende meno in istruzione d’Europa, il 4,9% del Pil, il 7,4% della spesa pubblica complessiva, quattro punti abbondanti sotto la media Ocse. Ma giustamente noi i soldi li buttiamo a palate nelle pensioni e nei sussidi di disoccupazione, non nella scuola. Cosa potrà mai andare storto?
Ancora: siamo penultimi nell’area Ocse, davanti al solo Messico, col nostro 18% di laureati sul totale della popolazione, contro il 37% del dato medio e il 46% di Regno Unito e Usa. Siamo penultimi in Europa per il numero di laureati, 26 ogni 100, nella fascia d’età tra 30 e 34 anni e con un abbandono universitario che si aggira attorno al 38%. Di nuovo: il tasso di passaggio dalle scuole superiori alle università nei dieci anni tra il 2005 e il 2015 è calato di 24 punti percentuali (dal 73% al 49%). Nello stesso periodo le immatricolazioni sono state 65mila in meno. E solo un manager italiano su quattro ha una laurea in tasca, mentre nel resto del continente la media è del 54%.
Non solo: è sconfortante che le uniche che si salvano, in questo quadro desolante, sono le ragazze, che vanno meglio dei ragazzi in tutte le macro-aree geografiche del nostro Paese, con differenze di punteggio che vanno dai 19 punti del Nord Ovest ai 35 del Sud Isole, ma che lavorano meno, fanno meno carriera e sono meno pagate dei loro colleghi maschi. Ed è sconfortante, infine, che gli studenti con livello alto di rendimento, ma svantaggiati dal punto di vista socio-economico siano i più scoraggiati di tutti. Non solo i cinesi ci surclassano su tutta la linea, non solo non abbiamo nemmeno provato a combattere, ma siamo riusciti pure nell’impresa di tenere in panchina i talenti migliori. Ma è sicuramente colpa degli immigrati e dell’Europa, se stiamo affondando.