“Siamo ad un punto di non ritorno”: la lettera di una dottoressa testimone dell’aggressione a Foggia
"Quella notte ero di guardia e ho refertato gli esami dei colleghi coinvolti. Questo non mi è stato d’aiuto, perché dentro di me la rabbia è montata subito". Comincia così la lunga lettera, pubblicata su Facebook, di Flaminia Mangano, medico di guardia la sera del 4 settembre al policlinico di Foggia dove il personale sanitario del reparto di chirurgia toracica è stato aggredito dai parenti della 23enne Natascha, morta durante un intervento. Una vicenda che, testimoniata da un video diventato presto virale, ha fatto il giro d'Italia.
Mangano ha ricordato che Natasha "da giugno era ricoverata nel nostro Policlinico, a seguito di un gravissimo incidente stradale. Era stata presa in carico dall’equipe dei nostri rianimatori in condizioni gravissime, sottoposta alle cure di professionisti altamente specializzati, ed era stato grazie a loro se si era salvata da un destino infausto già all’esordio. Dopo vicende cliniche nelle quali, per ovvi motivi, non è il caso di addentrarsi in questa sede, era stata sottoposta ad un intervento salvavita di neurochirurgia e poi trasferita in un reparto di Riabilitazione, nel quale, con la sua volontà certo ma anche grazie ai protocolli e alle cure del caso, era riuscita a rimettersi in piedi. Le era stata salvata la vita. Dalla buona sanità. Dalla sanità che fa il suo lavoro notte e giorno, quella di cui non si parla. Quella che non si ringrazia. Quella che non fa notizia. Quella gratis, garantita di diritto a tutti. Era in attesa di un trasferimento in una struttura specializzata per subire, in elezione, un intervento che qui, nel nostro Policlinico, non viene effettuato di routine. Perché si, udite udite, la verità è questa", ha scritto facendo anche riferimento alla lettera, pubblicata sempre sui social, dalla sorella della ragazza, Tatiana, spiegando che la sua famiglia "ha fatto la guerra peggio di Gomorra".
"Lo scibile medico è sconfinato e, invece, le nostre risorse umane di medici sono limitate – ha continuato la dottoressa -. L’intervento era da eseguire in un centro di riferimento per questo tipo di chirurgia, era un intervento per il quale nel nostro Policlinico non era stata maturata una sufficiente esperienza. Le condizioni delle ragazze erano stabili, come scrive la sorella stessa. I parametri vitali buoni. Poi accade l’imprevisto. E già. L’imprevisto che, e qui di nuovo ascoltate bene vi prego, fa tremare le vene ai polsi anche ai medici. La necessità di intervenire d’urgenza, per scongiurare il peggio. Datemi retta, nessuno, nessuno al mondo, si sarebbe voluto trovare al posto di quei colleghi. La lotta tra la vita e la morte, il filo sottile su cui ci si gioca tutto. E allora mi immagino la loro adrenalina in sala, il fermento del personale tutto, le grida, le imprecazioni, lo sgomento".
Infine, Magano ha precisato: "Il nostro intervento non è garanzia di salvezza. È impegno a farcela. Ed è pur sempre la sola possibilità che abbiamo. Venire in ospedale ‘a fare la guerra peggio di Gomorra’, come leggo in quella lettera, deve essere un’opzione non ammissibile. Non può essere giustificata. Neanche dal dolore più cupo, dalla disperazione più sorda. Non in un paese civile, quale dobbiamo fare in modo che l’Italia resti". E poi ha concluso: "Non possiamo più continuare così. Servono misure efficaci. Serve fermarci a riflettere. Serve adesso. Siamo ad un punto di non ritorno, la sanità pubblica è al collasso. La situazione è già sfuggita di mano".