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Si salva dall’infarto ma si infetta in ospedale: 60enne muore, la famiglia ottiene maxi risarcimento

Ricoverato all’ospedale di Pesaro, un uomo aveva accusato forti dolori al petto. Durante la degenza si era ammalato di polmonite ed era morto due mesi e mezzo dopo: la famiglia riceverà ora 462mila euro dall’ospedale dopo una sentenza del tribunale.
A cura di Giovanni Turi
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Un 60enne è morto per un'infezione contratta in ospedale, dopo essersi salvato da un infarto (immagine di repertorio)
Un 60enne è morto per un'infezione contratta in ospedale, dopo essersi salvato da un infarto (immagine di repertorio)

Era riuscito a sopravvivere a un infarto, ma durante il ricovero all'ospedale di Pesaro aveva contratto un'infezione che, due mesi e mezzo dopo, è risultata fatale. È morto così un uomo di 60 anni, imprenditore della termo idraulica. E il tribunale civile di Pesaro ha stabilito un maxi risarcimento ai familiari, la moglie 58enne e il figlio di 35 anni, da 462mila euro da parte dell'istituto ospedaliero.

Questo perché i giudici hanno riconosciuto che l'uomo è stato contagiato da due batteri, escherichia coli e da cytomegalovirus, durante la degenza, che gli hanno provocato una polmonite letale legata anche al fatto, si legge nella sentenza, che "ambienti, personale e attrezzature" non erano sterilizzati adeguatamente e che il paziente non avrebbe ricevuto una "inadeguata assistenza".

Il malore, il ricovero e il decesso

Tutto è partito il 23 aprile 2018, quando l'uomo è stato trasportato d'urgenza all'ospedale di Pesaro dato che sentiva un forte dolore al torace. A stretto giro, il paziente venne ricoverato nel reparto di Cardiologia per poi essere dimesso il 6 giugno. La diagnosi era infarto del miocardio.

L'uomo ha continuato a sottoporsi a controlli ambulatoriali fino al 29 giugno, non appena è stato ricoverato nuovamente, questa volta in codice giallo. Poche settimane dopo, il 12 luglio, l'uomo è morto. Dall'autopsia del corpo, eseguita a due giorni di distanza, la diagnosi riportava "fibrosi di infarto miocardico acuto diaframmatico".

I dubbi dei familiari

Ai familiari questa diagnosi non tornava granché. Per questo, avevano deciso di incaricare un consulente tecnico che in una relazione successiva ha accertato come la morte del paziente fosse connessa a complicanze di un'infezione correlata a una "inadeguata assistenza prestatagli durante la degenza dal 23 aprile al 6 giugno 2018, per non aver garantito la sterilità degli ambienti, del personale e delle attrezzature".

Per il tribunale di Pesaro, racconta Il Resto del Carlino, i motivi dietro la morte dell'imprenditore sarebbero i "comportamenti omissivi rispetto alle norme igienico-preventive riferibili all'attività del personale sanitario di tale presidio" e "un successivo comportamento omissivo nei confronti dell'infezione, non diagnosticata e quindi non adeguatamente trattata".

Adesso l'ospedale di Pesaro dovrà risarcire i familiari per una cifra pari a 462mila euro. Ad assistere la famiglia dell'uomo defunto è l'avvocato Ugo Ruffolo che ha commentato la sentenza affermando che "mai il risarcimento monetario può ripagare la perdita di una vita umana. È piuttosto una forma di riparazione e di responsabilizzazione. Il fatto di pagare rende molto più attente le strutture ospedaliere e può considerarsi una forma di moralizzazione".

Ruffolo ha aggiunto: "I giudici hanno confermato un principio di diritto su cui avevamo impostato la nostra difesa. Quando si è ricoverati in una struttura ospedaliera e il decesso avviene non per effetto diretto del morbo o della malattia per la quale si è ricoverati ma per qualsiasi altra infezione imputabile a cure ricevute, omesse o alla cattiva gestione del contratto di spedalità, la responsabilità dell'ospedale è piena. E poco importa quanto grave fosse la malattia di partenza, quando quella malattia non è la causa del decesso".

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