Sgarbi contro la censura social: “Paragona una scultura di Canova al culo della Nappi”
“L’algoritmo non pensa, esegue. L’algoritmo non possiede conoscenza, ma applica dei blocchi che prescindono da valutazioni di merito. Ecco perché una scultura del Canova viene paragonata al culo di una Valentina Nappi qualsiasi: un orrore estetico. È un oltraggio al nostro patrimonio artistico”. Vittorio Sgarbi, da alcuni mesi anche presidente della Fondazione Canova, non ne può più: Facebook e Instagram continuano a censurare le immagini dei nudi artistici di Antonio Canova pubblicate dai profili social della Gypsotheca di Possagno, che ospita proprio queste opere. E così, in pieno accordo col sindaco del piccolo comune del Trevigiano, assicura Sgarbi, la Fondazione ha deciso di portare i due social network in tribunale, con tanto di richiesta di risarcimento danni.
“Stiamo avendo troppi danni di immagine" continua Sgarbi: i contenuti pubblicati sotto l’hashtag #antoniocanova non sono visibili da diverso tempo. E così la Fondazione, dallo scorso 6 settembre, ha lanciato #freeantoniocanova, arrivato dopo l’ultima censura ai danni della riproduzione dell’immagine del gruppo scultoreo “Amore e Psiche”, utilizzata per la campagna promozionale da parte di un agenzia di comunicazione.
“Se censurano pure le opere d’arte, Facebook e Instagram diventeranno presto solo un ritrovo di psicopatici e segaioli” ha rincarato la dose il critico qualche giorno fa sul web, mentre in un post precedente ha precisato: “Inaccettabile che social network popolari, danarosi e tecnologicamente avanzati come Facebook ed Instagram non siano riusciti ancora ad oggi a trovare una soluzione per distinguere una immagine porno da un’opera d’arte: per questa ragione, considerato che le censure si ripetono di continuo, ho deciso di promuovere un’azione legale per il danno che questa lacuna arreca al mondo dell’arte e a tutti gli operatori (artisti compresi) che vi lavorano. Sarà quella che in inglese definiscono una class action”.
“Il punto – spiega ancora Sgarbi – è proprio l’algoritmo: società stracolme di soldi, come Facebook, non possono affidare il controllo delle inserzioni sull’arte a un algoritmo. L’algoritmo non pensa, esegue”. E allora che si fa? Sicuramente si parte con un’azione legale, poi, ecco la soluzione proposta dal critico e politico: “Basterebbe assumere giovani storici dell’arte. Facebook farebbe un’opera meritoria, e potrebbe vantarsi di promuovere l’arte invece delle stronzate (per non dire delle bufale) pubblicate ogni giorno da milioni di utenti nulla facenti. Il paradosso dei social network è che bloccano le opere d’arte ma non le notizie false”.