È che in fondo, se ci pensate, abbiamo perso anche le parole. A furia di inseguire l'iperbole giusto per una decina di clic abbiamo finito per abusarne, delle parole: strage, delitto, tragedia, tutte snocciolate con la boria di un venditore di caldarroste che deve convincervi di averle più buone e più calde di tutti gli altri. Così una notizia come quella che ci raccontano Gaia Bozza e Antonio Musella in un servizio che andrebbe appiccicato, stasera appena tornati a casa, sulla porta del frigorifero perché ne sappiano tutti in famiglia, i coinquilini, nel palazzo, la notizia di trecento persone che hanno mangiato amianto per contratto, sotto l'ombra di un capannone che visto oggi, quasi solo scheletro e monnezza, sembra il giusto cimitero, ecco la notizia di un quartiere che indicava le nuvole senza sapere che fosse fumo di fibre tumorali: che parola si usa per una notizia così?
Questi non sono mica morti sul lavoro: questi sono morti di lavoro e, senza saperlo, hanno costruito le fondamenta velenose per i figli e i figli dei loro figli dopo di loro. Guardate gli occhi dell'operaio che ricorda le voci dei bambini che giocavano nel cortile dell'asilo lì a pochi passi. Provate a guardarci dentro: sono gli occhi di chi ha più paura di avere ucciso piuttosto che di morire. Sono gli occhi di chi ha servito un esercito di avvoltoi pensando di faticare bene, di faticare giusto, in una terra dove anche trovarsi un lavoro onesto alla fine è già una fortuna da tenersi stretta.
Ma che differenza c'è tra la "Terra dei fuochi" dei veleni camorristici e un cielo dove piove cancro grazie alle Ferrovie dello Stato? Qui dove lo Stato non ha perso una battaglia ma ha più tragicamente ingaggiato la guerra sbagliata? Nessuna o forse moltissime: di sicuro ci dovrebbero essere le stesse manifestazioni di piazza, gli stessi falsi visi contriti a pescare consensi, magari se vi scappa anche un paio di romanzi, qualche libro all'autogrill. Perché bisognerebbe spiegare, a questi trecento operai che si pentono di essere sopravvissuti ai compagni di turno, bisognerebbe spiegargli che la morte d'amianto non tira, non funziona, non riesce a sfondare come sfondano le tragedie piante all'unisono sia nelle cucine che nei social network. Morire d'amianto è una morte che non ha nemmeno un nemico brutto, sporco o cattivo da rendere potabile per un approfondimento in seconda serata. Morire d'amianto non si riesce nemmeno a raccontare. Anzi sarebbe da chiedere a voi come raccontate ai vostri figli di essere morti per avere assaggiato l'aria sbagliata, dovreste dircelo voi come martellare in testa di chi ci legge questo veleno che si traveste da brezza eppure ha tutti i peli del male più viscido del nostro secolo.
La fabbrica Isochimica di Avellino è la sindone laica dei nostri ultimi cinquant'anni italiani: cinquant'anni di lavoro che era solo dire "grazie" o "per fortuna" perché un mestiere, in alcuni posti dello stesso Paese i cui viaggiate, dormite e rientrate a casa, perché il mestiere qui in Italia è sempre stato un privilegio. In faccia ai diritti e in culo alla Costituzione c'è solo da prenderselo e stare zitti e poi fa niente se gli operai finiscono come moscerini schiacciati sui vetri. Sono passati anni, il tempo si appoggia su tutto, figurati sull'amianto.
"Reduci di lavoro". Ecco cosa sono. "Reduci di lavoro" con le corde del cuore che si sono strette introno ad un dolore anche senza bisogno del Vietnam. Gli operai che parlano in questo servizio sono persone a termine, morituri li chiamavano gli antichi Romani quando entravano nel Colosseo pronti ad essere sbranati, i "morituri" moderni hanno qualche percento di invalidità e un prospettiva di vita direttamente proporzionale all'elasticità dei propri tessuti interni. Altro che i thriller americani. Ad Avellino c'è una generazione che piscia amianto e forse non lo sa nemmeno. E intanto si aspetta la rivoluzione, il risollevamento del mezzogiorno, il Paese che riparte.
E voglio vedere se almeno questo, se almeno questi seicento polmoni anchilosati, si meritano una scusa, un tweet, una parola o magari, proprio per esagerare che siamo quasi sotto Natale, una penombra di giustizia.