L'ultima in ordine di tempo è l'inchiesta di Domenico Quirico che, per La Stampa, racconta come sia riuscito a intavolare una trattativa con mediatore per acquistare reperti archeologici trafugati illegalmente nelle terre controllate dal Califfato Islamico, dalla Libia e dal vicino Oriente. Quirico squarcia il velo sui reperti archeologici che trafugati da Sirte entrano nel circuito illegale internazionale grazie all'aiuto della ‘ndrangheta. «Da dove viene questa testa? Questa viene dalla Libia. Armi in cambio di statue, anfore, urne: funziona così…» spiega l'intermediario: Gioia Tauro provincia del califfato, quindi, con la ‘ndrangheta vigliacca a fare da portaborse all'Isis e al suo terrore.
Le archeomafie (il nome con cui si intendono le attività delle organizzazioni criminali di scavi clandestini, furto e commercializzazione illegale di reperti archeologici e opere d'arte) sono, secondo alcuni studi, il terzo settore più florido (dopo droga e armi) per le mafie italiane dopo il parco traffico. Il sistema è snello e con poche figure "professionali": c'è il tombarolo che saccheggia i siti trafugando statue, anfore e reperti di ogni tipo (ultimamente sono gli stessi miliziani dell'Isis che in nome dell'integralismo religioso si occupano di distruggere i siti archeologici stando bene attenti di "salvare" ciò che è commerciabile), c'è il committente che si occupa di piazzare i pezzi sul mercato (e qui le mafie la fanno da padrone avendo ampie disponibilità di denaro liquido da riciclare) e poi i compratori. La merce di scambio oggi sono le armi: il Califfato si arma grazie alla mafia e la mafia riesce ad accontentare i collezionisti più spericolati. E il cerchio della vergogna si chiude.
Eppure sarebbe troppo facile pensare che un presunto ‘ndranghetista e un soldato dell'Isis possano fare tutto. Perché la trattativa si consumi servono una serie di facilitatori come i consulenti che stabiliscono valore e prezzo e chi disegna le rotte perché la merce arrivi sulle coste italiane. Le archeomafie hanno anche loro un ricco sottobosco di colletti bianchi, insospettabili professionisti che in nome di un guadagno facile finiscono per essere i camerieri della ‘ndrangheta o dell'Isis. Eppure le archeomafie sembrano marginali, lontane e non entrano nelle cronache e così l'humus dell'indifferenza (il letame perfetto per l'operatività mafiosa) si moltiplica.
Nel 2015 l'Unesco valutò intorno al traffico dei reperti un mercato di 2 miliardi e duecentomila dollari con l'Italia come primo Paese per fatturato, Legambiente nel suo ultimo rapporto ipotizza che circa 500 milioni di euro siano in mano alle mafie con un migliaio di furti di opere d'arte accertati solo in Italia. Al boss di ‘ndrangheta Gioacchino Campolo, tanto per fare un esempio, vennero confiscati 125 quadri tra cui ci sono opere di Dalì e di Fontana, Sironi e De Chirico, Ligabue e Carrà. Ma i finanziatori del mercato sono anche «i grandi musei occidentali – dice Tsao Cevoli, presidente dell'Osservatorio Internazionale sulle Archeomafie – soprattutto musei che si trovano in zone come gli Stati Uniti che non hanno un grande patrimonio culturale plurisecolare e che quindi vanno a caccia da sempre di reperti da acquistare sul mercato internazionale senza occuparsi troppo della eventuale provenienza illecita».
La bellezza mercificata per fare i soldi e la guerra, il fango della mafia e il sangue dell'Isis. Cosa serve ancora per fare scattare l'allarme?