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Se la mafia diventa un hashtag

Quali sono gli argomenti trattati nei social network collegati al tag #mafia? Chi usa questa lista? Quali messaggi si veicolano? Cosa emerge dall’analisi dei contenuti? Ci sono differenze tra le diverse piattaforme che offrono questo servizio? Fino a che punto gli stereotipi si impongono sulla realtà? Un’indagine reale sulla #mafia nel mondo digitale.
A cura di Marcello Ravveduto
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Ormai l’uso degli hashtag è parte integrante dell’agire quotidiano in internet, anzi è il sintomo di un cambiamento che non passa inosservato: la rivoluzione digitale sta modificando anche il modo di scrivere costringendo, a chi non vuol rimanere fuori dalla competizione globale, alla ri-alfabetizzazione virtuale seguendo le regole dell’etichettatura tematica.

Imparare ad usare gli hashtag significa acquistare maggiore visibilità circoscrivendo, all’interno del mare magnum del web, community concettuali riconoscibili: uno strumento che permette da un lato di trovare più facilmente un post, un commento, una foto o un video collegati ad un tema, dall’altro di lanciare una nuova discussione indicandola come interessante ad una rete di networkers più estesa dei soli contatti personali. Il tag funziona come una banca dati virtuale che immagazzina informazioni distribuendole in contenitori concettuali che producono un effetto scia.

Cosa accade se inserisco in un aggiornamento di stato il termine #mafia? Il contenuto sarà indirizzato ad una lista formata da tutti i post che hanno la stessa etichetta. Non solo. I miei contatti, visualizzando il dato inserito, potranno cliccare sull’hashtag, come se fosse un link, e aprire l’elenco per inserirne uno nuovo o commentare quelli già presenti. Provo a fare questa operazione su Twitter, Facebook e Instagram, tendendo presente un elemento condizionante: l’indicizzazione delle notizie è limitata alla data in cui sto compiendo la ricerca.

Sulla piattaforma di microblogging la lista è dominata dalla presenza di testate on line, di blog di informazione o di associazioni antimafia e di singole persone. Gli argomenti maggiormente trattati sono: la beatificazione di don Pino Puglisi (in coincidenza dell’anniversario della morte – 15 settembre 1993 –); la presa di posizione della Presidente della Camera, Laura Boldrini, sull’esclusione dei condannati per mafia dal percepimento del vitalizio parlamentare; la denuncia di Nando Dalla Chiesa sulle infiltrazioni nell’Expo 2015;  l’ergastolo al boss Tagliavia per la strage di via dei Georgofili; il fallimento dell’aziende confiscate alle mafie; la latitanza infinta di Matteo Messina Denaro; l’emergenza criminale in provincia di Foggia; la Trattativa Stato-mafia (mentre scrivo l’elenco si è aggiornato aggiungendo altre sette notizie tra cui un’inchiesta sugli investimenti delle mafie in Europa).

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Su Facebook la prevalenza di singoli utenti, che hanno condiviso un link da altri media o da altri iscritti, è notevolmente superiore. Non essendoci la limitazione a centoquaranta caratteri è possibile imbattersi in post articolati in cui si accompagna il contenuto con analisi personali. Un aggiornamento di stato dell’associazione di don Luigi Ciotti, Libera contro le mafie, cattura la mia attenzione: «Dalla guida 2015 di Valencia del Touring club d'Italia (Tci) scomparirà il nome della catena di ristoranti italiani in Spagna "La Mafia se sienta a la mesa", vale a dire "La mafia si siede a tavola"». Leggendo la notizia mi sono ricordato che esiste un narcocorrido messicano, interpretato da El Komander, che ha lo stesso titolo ma non ha niente a che fare con il cibo, si tratta piuttosto di una storia del Novecento vista dal punto di vista mafioso. Come vedete seguire la scia degli hashtag può aiutare ad effettuare collegamenti immediati che nella sfera analogica comporterebbero lunghe e complesse ricerche.

Molta attenzione viene riservata alla ‘Ndrangheta: dalle dichiarazioni del Procuratore capo di Reggio Calabria, Cafiero De Raho, alle infiltrazioni in Lombardia e in Emilia Romagna, dagli investimenti all’estero alla penetrazione nell’economia legale. Altri argomenti rilevanti riguardano le vittime innocenti delle mafie e una possibile implicazione del Vaticano in affari criminali (riportata dall’Indipendent). Non mancano, infine, riferimenti stereotipati all’immaginario mafioso, sia attraverso la pratica di tattoo sia attraverso la realizzazione di T-shirt.

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Nel social smart i primi 500 scatti sono stati realizzati da ragazzi russi, americani, giapponesi, turchi, messicani e persino scandinavi. Nemmeno un italiano. Nella maggior parte dei casi sono dei selfie in pose da malavitosi, in riferimento a situazioni spiritose genartisi in famiglia o in un gruppo di amici o legate ad un travisamento satirico del made in Italy: sguardi falsamente truci, cappelli alla Borsalino, comitive chiassose, piatti di pasta e figli capricciosi si alternano a vecchie foto di Al Capone, dei Gambino, di Marlon Brando in veste di Padrino e di James Gandolfini nel ruolo di Tony Soprano.

Nell’immaginario “fotosocial” la mafia è una specie di glam style giovanile con la quale si attestano alcune qualità mediterranee: coraggio, onore, rispetto, lealtà, familismo e soprattutto machismo. Ma essendo questo network fondato sull’etichettatura multipla, per ottenere un quadro complessivo della catalogazione digitale, bisogna seguire la lunga coda di hashtag simili ma non uguali.

Nella maggior parte dei casi i tag che seguono #mafia sono: #boss, #gangster, #mobster, #cosanostra, #thegodfather, #goodfellas, #scarface, #respect, #power, #omerta (senza accento), #alcapone, #johngotti, #luckyluciano, #pabloescobar. Si descrive virtualmente un glossario criminale che alterna termini descrittivi e valoriali con il richiamo a figure “eroiche” del mondo mafioso.

Non essendo possibile sviluppare tutti i possibili percorsi provo ad inseguire l’etichetta #cosanostra. Mi trovo davanti alla replicazione in immagini di luoghi comuni, ma, a differenza del tag #mafia, vi sono molte più fotografie ritraenti boss della mafia americana. Cliccando sulla foto di Anthony Casso (esponente della famiglia Lucchesi) mi ritrovo nel profilo di “American Mobster” la cui mission è pubblicare foto relative ai protagonisti della criminalità organizzata nel Ventesimo secolo in America. Ha 863 seguaci e 49 seguiti.

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Apro un profilo a caso tra quelli seguiti. Si tratta di un ragazzo italiano che ha scattato decine di selfie al mare, in contesti sfarzosi, in auto di lusso (una Lamborghini, un’Audi Q5, una Mercedes Slk 250) e in città straniere indossando abiti eleganti e orologi costosi. Chi è costui? Come può permettersi un simile tenore di vita? Perché è un appassionato follower di “American Mobster”? Meglio non saperlo.

I tre social, in defintiva, confermano le loro peculiari caratteristiche anche quando si parla di mafia: Twitter si presenta come un aggregatore digitale che scambia informazioni tra utenti competenti; Facebook è un contenitore che replica la realtà mescolando, come accade nel quotidiano, argomenti seri con puro divertissement; Instagram è un amplificatore metaforico in cui il medium assume la funzione di traduttore dal contesto reale all’impermanenza virtuale. Predomina l’individualismo edonistico globalizzato, esaltato dall’uso dei selfie, in cui la mafia è associata ad uno stile di vita fashion, come insegnano i narcos messicani, ma anche alla salvaguardia della memoria visiva dei suoi storici protagonisti.

La domanda da porsi, prima di concludere, è: i social network hanno edulcorato la violenza criminale trasformando la mafia in un argomento trendy soggetto alle regole del marketing virale? Si attendono risposte.

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