Savina Caylyn, nuova disperata chiamata dei prigionieri dei pirati somali
Per i cinque italiani ed i 17 indiani che compongono l'equipaggio della Savina Caylyn l'8 novembre inizierà il nono mese di prigionia nella mani di un gruppo di pirati somali; nove mesi durante i quali le condizioni dei sequestrati sono diventate «sempre più disperate» mentre il silenzio ne avvolgeva sempre di più le oscure sorti. Un silenzio che nei primi mesi avrebbe dovuto far svolgere le trattative in maniera serena, secondo quanto voluto dal Ministero degli Esteri, ma che, a giudicare dai risultati, celava più che altro l'inerzia del Governo in merito alla questione; accusato dagli stessi familiari dei marittimi, infatti, di aver somministrato rassicurazioni prive di consistenza dietro le quali si celava l'impossibilità o la non volontà di agire.
Nel frattempo l'armatore D'Amato continua ad essere irreperibile, assieme al suo ufficio legale di Londra, rendendosi così assolutamente responsabile della sorte di questi poveri uomini: troppe le telefonate che non hanno ricevuto risposta. «I pirati si aspettavano una chiamata dall'armatore che non è mai arrivata» ha dichiarato ieri alla redazione di Libero Reporter (qui la registrazione della telefonata) Antonio Verrecchia, direttore di macchine, che, insieme al primo ufficiale Eugenio Bon ha lanciato l'ennesimo, disperato appello telefonico, rovinando i piani di chi sta sperando che questa storia venga dimenticata in fretta.
Ieri, infatti, i sequestratori hanno autorizzato un contatto con il quotidiano online, presumibilmente nell'intesse che la «trattativa ferma» si metta in movimento, ripuntando i riflettori sull'intera vicenda. Le notizie giunte da quella nave dissoltasi nel golfo di Aden, hanno riportato alla luce tutta la drammaticità di quanto sta accadendo; a venti giorni dalla richiesta di silenzio da parte dei familiari, sono gli ostaggi a chiedere che non ci si dimentichi di loro. E non è difficile immaginare il perché.
Verrecchia ha spiegato che i pirati avevano fatto sbarcare il comandate Giuseppe Lubrano Lavadera, il terzo ufficiale Crescenzo Guardascione e l'allievo di coperta Gianmaria Cesaro, ma che, al fine di mettersi in contatto con l'armatore, il comandante era stato fatto tornare a bordo; «ma la compagnia tramite il mediatore londinese non si è fatta sentire, la promessa di chiamare non è stata mantenuta… Allora hanno riportato a terra il comandante e sappiamo bene come li trattano lì…» Bon, che parla accanto a Varrecchia, conferma che i tre sono sbarcati assieme al primo ufficiale di macchine indiano Puranik Rahul Arun e al secondo ufficiale di macchine sempre indiano, Nair Hari Chandrasekharan.
Sì, li hanno fatti sbarcare e io so quanto è dura la detenzione a terra, dove ti tengono mani e piedi legati, i pirati ci dicono che stanno bene, ma le condizioni sono estreme… Li hanno portati a terra come deterrente contro eventuali blitz, li tengono come scudi umani per paura di un attacco. Vorrei solo dire a chi di dovere che si sbrigassero a portarci in salvo. La chiamata dalla società non è arrivata, ci avevano dato garanzia, questi che tengono i nostri compagni a terra, che avrebbero riportato a bordo almeno il comandante… Ma adesso che la telefonata non è arrivata, hanno deciso di chiamare voi per richiedere nuovamente l’attenzione sul caso della nostra nave. La compagnia voleva parlare con il comandante, sapendo che lo avevano fatto sbarcare, e volevano sincerarsi delle sue condizioni, ma siccome non hanno chiamato, il comandante è stato riportato a terra.
Sono mesi che nessuno sembra riuscire a vedere una via d'uscita, tra quanti patiscono la prigionia e tra quanti, disperati, attendono a casa. Nove mesi e il tempo stringe davvero.