Sara Pedri, la sorella ricorda la dottoressa scomparsa: “Era piena di vita, il mobbing l’aveva spenta”
Capelli rosso fuoco, unghie colorate e sorriso sempre in volto: Sara Pedri era entrata così per la prima volta nel reparto di ginecologia e ostetricia oncologica dell'ospedale Santa Chiara di Trento. Lentamente, poi,a causa del mobbing aveva iniziato a spegnersi. Sara aveva smesso di mettere lo smalto, di curare i suoi lunghi capelli rossi e di sorridere. "Le persone tendono a dimenticare che ci si ammala prima nella mente e poi nel corpo, soprattutto al giorno d'oggi" ha dichiarato a Fanpage.it Emanuela Pedri, sorella della dottoressa scomparsa nel 2021.
"Questo periodo per noi familiari non è semplice – ha spiegato ancora la sorella – perché Sara amava molto il Natale. Anche prima di arrivare a Trento, spesso passava le feste in reparto, ma non le pesava allora. Prima di arrivare a Trento era felice e quando stava bene lei indossava il suo berretto da Babbo Natale e ci mandava i video in cui decorava casa o i corridoi degli ospedali di Catanzaro e di Forlì. Alcune volte ci mandava i video dei suoi dolci di Natale. Per noi è doloroso vedere il suo posto a tavola vuoto".
Per metabolizzare la scomparsa di Sara Pedri, avvenuta nel marzo di 2 anni fa, la sorella Emanuela ha deciso di piantare un albero in suo onore. "Attorno all'albero è nato il giardino e lì abbiamo portato la targa di mia sorella. Ogni giorno persone da tutta Italia portano regali, pensieri e omaggi. Io credo che questo sia il modo che mia sorella ha scelto per tornare da me, di farmi capire che lei non è morta, se ne è solo andata".
Quando dice che Sara non è morta ma se ne è andata, cosa intende?
Mia sorella amava molto la vita, la sua famiglia, conoscere persone nuove e ridere. Era molto terrena, in questo senso. Amava anche le feste in famiglia, stare tutti insieme e scambiarci i regali. Sara era viva nel modo più evidente che possa venirmi in mente e da quando abbiamo deciso di creare il giardinetto, ci siamo resi conto che tutto questo non poteva andare perso: da tutta Italia sono arrivate persone a portare doni e pensieri per lei. Adesso il giardinetto si è riempito di decorazioni natalizie arrivate da Nord a Sud. Io credo che questo sia il suo modo di tornare da me ogni giorno: attraverso le persone, le loro storie e attraverso queste decorazioni di Natale che mi ricordano quanto lei amasse festeggiare insieme a noi.
Perché ha scelto di creare questo giardinetto?
Un intento prima personale, in realtà. A me e alla mia famiglia serviva per rielaborare un lutto senza una salma, che non poteva chiudersi perché non potevamo seppellirla e pregare per lei in modo canonico. Io sono nata in una famiglia cattolica e per me era importante poter pregare per lei, sentirla più vicina così. Il giardinetto di Sara serviva a questo, ma il nostro intento è poi diventato collettivo perché in tantissimi hanno iniziato a portarle i loro omaggi.
Penso anche che porti chi non la conosce a porsi una domanda: ci si ritrova davanti il suo volto per sempre fermo ai 30 anni e viene da chiedersi cosa le sia successo. Credo che troppo spesso le persone non si pongano le domande giuste e che a volte fermarsi davanti a un "perché?" possa prevenire tanto male.
Si riferisce a Sara?
Mi riferisco a tutte le persone che subiscono mobbing ogni giorno. Alcune volte, fermarsi a parlare, porsi delle domande e provare ad ascoltarsi può aiutarci a renderci conto che non siamo i soli a stare male. Se Sara avesse potuto parlare del suo stato d'animo con noi o con i colleghi, se avesse ricevuto una pacca sulla spalla, forse tutto questo non sarebbe successo. Il suo vero percorso è iniziato quando è scomparsa: grazie alla sua esperienza, tanti medici del Santa Chiara hanno trovato il coraggio di denunciare le stesse vessazioni, di unirsi.
Questa società ci vuole performanti e perfetti, ci vuole soli e malati. Se mia sorella avesse potuto confrontarsi con gli altri, forse tante cose brutte non sarebbero accadute. Invece chi la circondava ha forse pensato: "Finalmente respiro, perché ora è lei l'ultima arrivata. Ora tocca a lei subire".
Sara era cambiata da quando aveva iniziato a lavorare al Santa Chiara. Che ricordo ha dell'ultimo Natale trascorso insieme?
Sara spesso trascorreva il Natale in reparto, ma questo avveniva già molto prima di arrivare al Santa Chiara di Trento. Prima di arrivare lì però me la ricordo felice e viva, a lei piacevano molto le feste. Quando è arrivata a Trento ha iniziato a cambiare e io ho iniziato a vederla sparire: a un certo punto mi sono resa conto che era dimagrita, che parlava con un filo di voce e che aveva gli occhi spenti, sembrava impaurita. L'ultimo ricordo del Natale che ho, purtroppo, è quello delle prime feste senza di lei. Adesso sto cercando di riempire il suo posto a tavola vuoto in altro modo.
Cosa intende?
Ha trovato i modi più disparati di presentarsi a me: prima in forme fisiche, ora attraverso le persone che incontro. Sara amava l'umanità e penso che venirmi a trovare attraverso i rapporti umani sia il suo modo di dirmi che sta bene, che non è più qui solo fisicamente. Mi ha scelta per continuare a lottare, io questo lo sento. Solo questo mi ha dato la forza di andare avanti fino ad ora.
Arriva da qui la scelta di dare vita a un premio in memoria di Sara Pedri per i giovani medici?
Un'iniziativa bellissima dell'Università Magna Grecia di Catanzaro. Noi ci siamo sentiti onorati, speriamo che ci siano altre edizioni di questo premio voluto dall'ambiente che ha formato Sara. Chiunque abbia lavorato con lei in quegli anni ne era entusiasta.
Il mobbing ai danni di sua sorella potrebbe essere associato a una sorta di snobbismo nei confronti del Sud, dove Sara si era formata?
Certo! Nel suo diario, Sara raccontava di essersi tolta lo smalto colorato per adattarsi alle altre colleghe alle quali era richiesto di operare senza smalto. Scriveva di sentirsi "una terroncella" e all'inizio mi sono chiesta come potesse usare questi termini per descriversi, non lo aveva mai fatto. Poi ho capito: in reparto le dicevano continuamente che a Catanzaro "non era stata formata bene", che tutto quello che aveva dimostrato in tanti anni di studio e lavoro non era abbastanza. Lei voleva fare bene, teneva al suo lavoro, diceva sempre di essere contenta di lavorare "per l'eccellenza".
Riteneva che Trento fosse l'eccellenza?
Assolutamente, Sara lo diceva spesso. Per lei quell'ospedale era il massimo della competenza, ma certamente abbiamo visto che non vi era affatto l'eccellenza umana. Io credo che in questi contesti, l'empatia sia fondamentale. Io le assicuro che tante cose brutte accadevano a mia sorella e ai suoi colleghi anche davanti ai pazienti.
Nessuno però è mai intervenuto.
Nessuno. Io credo che vivessero la cosa come un momento di sollievo, un attimo in cui il capo di turno poteva scatenarsi contro l'ultima arrivata. Per sopravvivere, molte persone del personale di quel reparto hanno scelto di diventare come i loro aguzzini.
Un sistema tossico.
Esatto, un vero e proprio sistema tossico che impari a non vedere più. In quel contesto impedivano ai medici di parlare tra loro, di fermarsi a prendere il caffè, di parlare dei propri problemi e perfino di pranzare insieme seduti al tavolo. Mangiavano in piedi e da soli in uno sgabuzzino. Non potevano sapere di sentirsi tutti nello stesso modo ed è stata Sara, per certi versi, a farli avvicinare dopo la sua scomparsa.
Qualcuno si era mai accorto di quell'ambiente?
Certo. Si respirava un'aria pesante e rarefatta in quel reparto. Anche Sara se ne era accorta.
In che senso?
I primi giorni di lavoro si era resa conto che qualcosa non andava, anche se non sapeva bene cosa. Quando si sta male in certi ambienti, bisogna riconoscere i segnali per fuggire senza dare spiegazioni e lei non ci è riuscita.
In questo senso non sarebbe utile una sorta di psicologo per il lavoro?
Certo, sarebbe utilissimo. I medici però sono professionisti atipici, perché tendono a non volersi rivolgere ad altri colleghi. Lei aveva paura di far del male ai pazienti, credeva di non essere "a posto" con la testa. Credo che temesse che se fosse andata da uno psicologo a raccontare tutto questo, non avrebbe più lavorato. Per operare devi essere lucido.
Crede che non lo fosse?
Penso che fosse lei a credere di non essere presente a se stessa. In realtà non era l'unica a sentirsi così, ma lei non lo sapeva e allora neppure noi. Abbiamo letto le carte di quel processo, sappiamo cosa accadeva in quei corridoi ospedalieri.
Cosa accadeva?
A parte i maltrattamenti? Sara era costretta a correre, a turni massacranti, a non alzare mai la testa, a sentirsi apostrofare in tutti i modi. C'erano le violenze psicologiche e quelle fisiche, le vessazioni e le mortificazioni. Le dicevano che non era pronta, eppure nei primi mesi della sua esperienza era stata definita dal primario del reparto adatta e preparata per quel contesto. Aveva dimostrato sul campo il suo valore e aveva lavorato nel campo della Procreazione medicalmente assistita. Sognava la vita dove immaginarla è molto difficile e lavorava duramente per questo. Si è sentita sola e inadatta.