Alcuni giorni fa sono uscite le motivazioni alla sentenza per l’omicidio di Saman Abbas, la ragazza diciottenne pakistana che viveva a Novellara con la sua famiglia uccisa la notte del 30 Aprile del 2021 dai suoi familiari. Una sentenza che condanna i suoi genitori (la madre di Saman è ancora libera) e uno zio per averla uccisa, ma che non riconosce nel rifiuto della ragazza a un matrimonio forzato il movente che sottende il suo femminicidio.
Come professionista che da anni lavora al fianco delle donne vittime della violenza maschile, e che pertanto ha avuto modo di sostenere e accompagnare nel loro percorso di emancipazione anche ragazze pakistane che si sono ribellate alla scelta imposta del matrimonio forzato, questa ricostruzione processuale mi porta inevitabilmente e fare delle riflessioni.
Secondo le Giudici, Saman sarebbe stata uccisa, non per essersi ribellata al matrimonio forzato, che per la Corte appare semmai definibile come combinato, ma perché quella sera, i genitori avevano scoperto che la stessa aveva ancora una relazione con un ragazzo diverso da quello scelto da loro e perché aveva intenzione di allontanarsi nuovamente da casa.
Alla base di questa ricostruzione della Corte, che si discosta anche da quella dell’accusa, l’assenza di elementi probatori a sostegno della sussistenza di un progetto di matrimonio di Saman. Vi sono le foto del fidanzamento avvenuto nel dicembre del 2019 tra Saman e il cugino, più grande di lei di 11 anni che era stato scelto come suo sposo, ma nessun altro elemento.
A parte le dichiarazioni della stessa Saman, private quindi del loro stesso valore probatorio (non necessitando di riscontri esterni).
Era stata infatti proprio Saman, in una disperata richiesta di aiuto, a contattare l’assistente sociale il 9 novembre 2021, perché aveva sentito i genitori parlare del matrimonio, programmato per il 17 novembre 2021. L’assistente sociale aveva fissato con lei un colloquio il giorno successivo, nel corso del quale la ragazza le aveva detto “ti prego aiutami”, accettando la messa in sicurezza in una struttura a indirizzo segreto, avvenuta il 13 novembre 2021.
Secondo la Corte, invece, in quella occasione Saman avrebbe “accentuato i contorni della vicenda connessa all’eventuale matrimonio”, per avere maggiore libertà.
Una ricostruzione, quella della Corte, che abbiamo modo di leggere nelle motivazioni: “È un elemento che nulla toglie e nulla aggiunge alla gravità del fatto, ma che corrisponde a una verità”. Ma è davvero così?
Appare infatti quantomeno doveroso, chiedersi se effettivamente questa ricostruzione dei fatti sia del tutto ininfluente oltre che in termini di determinazione della pena, anche nell’opportunità di fare giurisprudenza in casi simili e se la possibilità di osservare questo fatto, da una prospettiva differente, più interna, quella cioè delle ragazze che come Saman hanno provato e ancora provano a sottrarsi al destino scritto di un matrimonio forzato lasci invariate le suddette circostanze.
Credo sia utile, per prima cosa, fare chiarezza anche nell’uso dei termini.
Si può parlare di matrimonio forzato quando il consenso è estorto attraverso la violenza, le minacce o altre forme di coercizione. Questo lo distingue dal matrimonio combinato, dove non è escluso che il consenso possa essere prestato liberamente.
La legge 69/2019, il cosiddetto Codice Rosso, ha introdotto un’apposita fattispecie penale per punire i matrimoni forzati, inserendo l’art. 558 bis c.p.
Pertanto affinché si possa parlare di matrimonio forzato debbono sussistere tre condizioni: la coercizione, il conflitto di lealtà (cioè quel legame affettivo che lega la vittima alle persone che le impongono l’unione, che le rende più difficile una netta presa di posizione, ancor più una scelta di autodeterminazione in termini di denuncia o di messa in sicurezza) e il fatto che sia un fenomeno trasnazionale. Condizioni presenti nella vicenda di Saman.
Per le famiglie il matrimonio combinato è sempre una questione economica, un patto che serve a sostenere il sistema familiare allargato, per questo il più delle volte gli sposi sono cugini, di primo o di secondo grado. Spesso il matrimonio avviene tra persone che appartengono alle stesse caste: quella delle caste infatti, seppur formalmente vietata per legge, sembra essere una pratica ancora molto diffusa nelle zone più rurali del Paese e nella comunità che vive in Italia. Un elemento fondante, che regge il sistema patriarcale pakistano.
Parliamo di leggi non scritte, ma imposte dalle tradizioni, delle quali pertanto è anche molto difficile trovare traccia o elementi a supporto.
Le ragazze per ruolo, devono portare rispetto ai loro genitori ed essere un orgoglio per le loro famiglie, in alcun modo il loro comportamento deve o può disonorare il nome della famiglia.
All’interno di questo sistema culturale, le ragazze non hanno alcun tipo di autonomia, non possono gestire autonomamente i loro documenti che spesso, come nel caso di Saman, vengono utilizzati come forma di ricatto per farle rientrare a casa.
Ce lo raccontano le ragazze che si rivolgono ai Centri Antiviolenza per cercare aiuto e tentare di liberarsi da un destino imposto.
Storie, le loro, perfettamente sovrapponibili a quella di Saman e di altre ragazze che abbiamo letto come fatti di cronaca.
Come Hina, nata in Pakistan e giunta in Italia all’età di 14 anni. Hina aveva cercato diverse volte di sottrarsi a quel destino, fuggendo di casa e presentando tre denunce nel corso degli anni, denunce che però al processo, a causa di quel conflitto di lealtà di cui abbiamo parlato, non era riuscita a confermare. Si stava però ricostruendo una vita, con un uomo che amava, diverso da quello che la sua famiglia aveva scelto per lei e con il quale viveva a Brescia, città in cui lavorava. È stata attirata a casa dei suoi genitori con l’inganno e lì ha trovato suo padre ed altri parenti uomini. È stata uccisa con venti coltellate, poi sgozzata e sepolta nell’orto di casa l’11 agosto del 2006.
Come Sana, 25 anni, italo-pakistana. Cresciuta in Italia, voleva vivere all’occidentale, sapeva di un matrimonio combinato in Pakistan e nel 2018 aveva accettato di andare. “Volevano sposasse uno della casta ma lei era convinta che se il futuro marito non le fosse piaciuto sarebbe tornata a Brescia”, aveva dichiarato un amico. Sana non è più tornata. Suo padre e suo fratello, che in un primo momento avevano confessato l’omicidio, hanno ritrattato e sono stati assolti per mancanze di prove.
Come Sarah, arrivata in Italia piccolissima, cresciuta nel nostro Paese dove andava a scuola e lavorava. Costretta ad andare in Pakistan per sposare un suo cugino quando i genitori avevano scoperto che frequentava un ragazzo di cui era innamorata. Abbandonata dal marito e destinata a un futuro a “servizio” dei suoi zii (i genitori del marito) ha trovato la forza di scappare, ha accettato la messa in protezione e ha sporto denuncia. “Nel nostro Paese amare è un reato” mi aveva detto una volta. Dopo due anni, nel corso dei quali è stata spostata da una casa protetta all’altra, perché cercata e individuata dalla sua comunità di origine, ha scelto di ritirare quella denuncia che ancora non aveva portato nemmeno a un rinvio a giudizio.
Come Ana, nata in Italia, che vuole solo poter prendere un diploma per trovare un lavoro ed essere autonoma, ma ha sentito che i suoi genitori vogliono farla sposare, per “sistemarla”, e ancora non sa se riuscirà a trovare la forza per recidere così di netto le sue radici.
Molte vittime dei matrimoni forzati sono ragazze di seconda generazione, letteralmente scisse tra la cultura che hanno assorbito vivendo nel nostro Paese e che le porta a voler rivendicare i loro diritti e quel sistema “valoriale” che hanno ereditato e che altre donne, prima di loro, hanno accettato.
Queste storie sembrano avere tutte un filo comune, che è la necessità, il tentativo di ribellarsi a un matrimonio forzato, indipendentemente da quelli che possono essere i progetti di ognuna in termini di autodeterminazione (amare un altro uomo, diplomarsi, trovare un lavoro, trasferirsi…).
Proprio per questo individuare nel matrimonio forzato il movente alla base del femminicidio di Saman, partendo proprio dalle sue dichiarazioni, da quelle parole che ha lasciato come testamento quando era ancora in vita forse avrebbe legittimato, come appare imprescindibile, le sue scelte di autodeterminazione, senza renderla, anche da morta, in parte responsabile della condanna che altri le hanno imposto. Vedere nel matrimonio forzato il movente di questo come di purtroppo altri femminicidi, avrebbe potuto dare speranza a quelle sopravvissute che stiamo cercando di sostenere.