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La tragedia dei migranti sulla rotta balcanica

Rotta balcanica: nei palazzi occupati dove si brucia la plastica per scaldarsi, in attesa di partire

L’ultima tappa del viaggio in Bosnia Erzegovina è lo squat Dom penzionera: un palazzone nei pressi del centro di Bihac. Avrebbe dovuto essere una casa di riposo, ma non è mai stato finito, così è diventato un rifugio per i migranti che non possono, o non vogliono, vivere nei campi come quello di Lipa. Oltre un centinaio di uomini e una sola donna: scappano dalle bombe, ma rischiano di pestarne una nelle foreste minate in Croazia. Pochi giorni fa, un migrante è morto per avere messo un piede su una mina antiuomo.
A cura di Luisa Santangelo
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Qualche giorno fa, alla fine, è successo: nelle foreste della Croazia, alcuni migranti hanno messo i piedi sulle mine antiuomo rimaste dalla guerra nei Balcani degli anni Novanta. Secondo l'agenzia France Press, che ha diffuso la notizia, uno è morto e altri sono rimasti gravemente feriti. Un altro modo per gli aspiranti richiedenti asilo per morire lungo la rotta balcanica, quando non bastano il freddo e le botte ricevute lungo il percorso. Chi tenta di varcare i confini d'Europa i pericoli li conosce ed è pronto a correrli. Con la primavera che si avvicina, e migliori condizioni meteorologiche, la neve si scioglierà e il viaggio sarà meno difficile.

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In Bosnia Erzegovina, vicino al confine croato, chi attende di vincere il suo game – il gioco della vita per entrare nell'Unione Europea e chiedere asilo – non vive solo nel campo di Lipa o nelle case sul confine, a ridosso della foresta di Bojina. A Bihac, la più grande delle città in quella zona, c'è una casa di riposo che avrebbe dovuto essere costruita prima dell'ultima guerra. "Poi la guerra è cominciata e l'edificio è rimasto incompiuto", spiega Daniele Bombardi, che per Caritas Italia è il responsabile della zona balcanica. Tra quei muri di mattoni a vista, senza porte né finestre, in inverno vivono oltre un centinaio di persone. Bruciano i bustoni neri della spazzatura per scaldarsi, dormono sul pavimento sporco, avvolti in diversi sacchi a pelo, friggono cipolle in pentoloni comuni e, quelli che riescono a procurarsi la farina, impastano il pane sciogliendo la neve.

"Mio cugino è morto tre anni fa nell'esplosione di una bomba in Afghanistan", spiega un ragazzo di ventitré anni, anche se ne dimostra molti di più. Due anni fa è fuggito da casa sua: "Troppi problemi: i talebani, Al Qaeda, Daesh". Per una famiglia di dodici persone, è un miracolo che sia riuscito a studiare fino all'università. Anche se a quel punto ha dovuto fermarsi: "Volevo lavorare per guadagnare abbastanza soldi per continuare a studiare, ma guadagnavo davvero troppo poco". Così niente università, ma il lungo viaggio verso i confini d'Europa, per condizioni di vita migliori, per non rischiare di morire per una bomba mentre vai a lavorare. Accettando di correre un rischio del tutto simile, però per l'ultima volta: quello di pestare una mina mentre attraversi una foresta.

"Io voglio solo vivere in un Paese democratico", dice Elena, l'unica donna in un palazzone di soli uomini. Ha 41 anni e viene dall'Ucraina, ma nel Dom Penzionera – così avrebbe dovuto chiamarsi la casa di riposo – ci passa solo le giornate. Di notte una famiglia di Bihac la ospita, gratis. "Non ci sono solo quelli che non ci vogliono, in Bosnia ho incontrato anche tante brave persone", racconta. Per vent'anni Elena ha vissuto da irregolare in Olanda. "Per noi che veniamo dall'Est Europa non è possibile chiedere la protezione internazionale". Nonostante i conflitti interni ed esterni e le note critiche della stessa UE sulla libertà di espressione e i diritti, l'Ucraina è considerato un Paese "sicuro". "Non voglio vivere in un Paese corrotto. Quindi, dopo che l'Olanda mi ha rispedita indietro, sto tentando questa nuova strada – prosegue Elena – Come gli altri migranti, proverò di nuovo a entrare in Europa". E ad arrivare in Olanda, sperando di poterci restare legalmente.

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