“Sono teppistelli col Rolex figli di papà”. Così Renzi e Alfano hanno liquidato le devastazioni black bloc di Milano. L'amministratore delegato del marchio di orologi di lusso Gianpaolo Marini, risponde oggi ai due rappresentanti del governo con una lettera aperta, pubblicata comprando spazio sui quotidiani, in cui si dice, in sintesi, che non erano Rolex quelli che si sono visti al polso di un paio di black bloc fotografati, che il marchio non si deve associare a dei devastatori e comunque se per qualche ragione dovesse essere sembrato vero, si trattava di patacche. Uno scambio pubblico di comunicati e di pensiero politico-aziendale (e viceversa) che evoca Totò e Peppino, più che House of cards, la serie tv Usa, così di moda tra politici e comunicatori.
I fatti: il giorno dei black bloc a Milano e quelli seguenti girava sui social – molto colpevolmente, ripresa da tutti i quotidiani on line – la fotografia di una donna incappucciata, bomboletta alla mano, intenta a imbrattare (o a esprimere il suo dissenso, a seconda dei punti di vista) su una vetrina. Aveva un orologio al polso, definito, secondo il principio di generazione automatica di patacche in rete, come un Rolex, quando nulla ma proprio nulla lasciava intendere che lo fosse. Bastava aver visto un Rolex una volta nella vita, o fare una ricerca su internet. E se questa non è la sola foto incriminata, è sicuramente la più accreditata. E comunque, nessun orologio di quelli fotografati al polso dei black bloc sembra un Rolex.
La prima questione, grave, che si pone è ancora una volta tutta legata alla bufala presa per vera (o generata apposta, poco importa: era una visibile bufala) da tutti i quotidiani on line, dai social, dai commentatori da social, dagli opinionisti da scrivania e da tv, ma soprattuto dal capo di governo e dal ministro degli interni. Eppure ne girano di Rolex autentici a palazzo Chigi. Ancora di più colpisce l'intuizione geniale: per quanto si possa essere figli di papà difficilmente ci si immagina apprestarsi a un'operazione di quel genere in cui ci si scontra e si tirano oggetti con un orologio di valore al polso. Invece, pur di dare una spiegazione al dissenso bisognava “incappucciarlo”, proprio come fa un black bloc. Quindi, arbitrariamente dedotto sulla base di nulla che si trattasse di un orologio Rolex andava fatta l'altra associazione: si trattava di un figlio di papà (o di una figlia visto che in un caso era una donna). E perciò tutti dietro.
Seconda questione: chi sarebbero, una volta per tutte, i “figli di papà”? L' espressione è la stessa che le istituzioni ripetono ormai da anni a ogni manifestazione. E non accenna a rottamarsi. Anzi. Peraltro, chi bolla i figli di papà non solo in genere è figlio di papà a sua volta, ma è per giunta, parte centrale e portante di una casta insopportabile di ignoranti, figli magari di papà corrotti. Almeno un tempo i figli di papà compresi quelli corrotti, studiavano. La miseria di questa espressione ha però un parente illustre: i famosi scontri di Valle Giulia a Roma, nel 1968 tra studenti e poliziotti. In quell'occasione Pasolini scrisse la poesia “Il PCI ai giovani”
[…] Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri. […]
E tra quei giovani c'erano Giuliano Ferrara a Ernesto Galli della Loggia per esempio. E quindi sì, aveva un senso distinguere figli di papà e poliziotti. Oggi si parla di lavoro, di globalizzazione, di sopraffazione, di corruzione della classe dirigente, di mafia. Le lotte di allora non somigliano neanche un po' a quelle di oggi. Perché per le istituzioni e per gli opinionisti il dissenso, ma soprattuto il disagio, il malessere, la protesta, per quanto esagerata, furiosa, e cieca è sempre da assegnare al “figlio di papà” che un domani diventa dirigente? O se non è figlio di papà, allora è invidia sociale. Lo erano gli studenti che manifestavano contro il governo Berlusconi, lo erano a Genova, sono oggi i black bloc di Milano, in un unico insopportabile calderone di pensiero e di visione del mondo, che continua dal '68 e che non ha più nessun senso ma che viene ripetuto all'infinito. Cosa fanno gli uffici comunicazione dei ministri? Non sanno proprio trovare un'altra espressione efficace? All'accusa “figli di papà” ha meravigliosamente risposto una ragazza, intervistata dal Corriere.it davanti alla festa dell'Unità a Bologna (in cui non è andava nessuno): “Ci dicono figli di papà? E' vero! Siamo a casa senza lavoro. In questo senso siamo figli di papà”.
La parte più ridicola della vicenda però resta quella dell'amministratore delegato di un marchio così prestigioso che ha sentito il bisogno di dissociare il Rolex dai black bloc. Delle due cose l'una: o il Rolex è un oggetto di valore o non è un oggetto di valore. Posto che Renzi e Alfano si erano convinti che fosse un Rolex per avallare la tesi dei figli di papà e che hanno, in una sola espressione inserito ben due patacche, dire che la Rolex si dissocia significa dare un valore anche politico al marchio. Interessante: associare Rolex a figlio di papà va bene. Non va bene però se chi lo indossa rompe vetrine. E se a indossare il Rolex è per esempio un killer? O se è un mafioso? Oppure se è simbolo della corruzione visto che era il regalo di laurea al figlio dell'ex ministro Lupi? Se il tratto principale del capitalismo e del marketing è che integra tutto senza distinguere il bene dal male purché si guadagni. Sì al Rolex se è un vero e autentico oggetto di corruzione. No, se è una patacca indossata da una che imbratta vetrine. Moralismo da orologeria.