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Risolto il mistero del feto alla Bicocca: Fu donato dai genitori per una ricerca

“Si è trattato di un aborto terapeutico: i genitori volevano donare il tessuto per la ricerca”, a spiegarlo è stata la dottoressa Paola Leone, in qualche modo coinvolta nel caso del corpicino ritrovato l’altro giorno in una cella frigorifera dell’Università milanese.
A cura di Biagio Chiariello
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Università-Bicocca-Milano

Il caso del feto trovato all’interno di una cella frigorifera all’Università di Milano Bicocca sembra essersi concluso con un epilogo chiaro. Come riporta il Corriere della Sera, a dipanare i dubbi ci ha pensato la dottoressa Paola Leone, direttrice del Sell&Gene Therapy center dell’Università del New Jersey. La scienziata ha riferito che il feto è stato donato da una famiglia del Sud Italia a seguito di un aborto terapeutico risalente al febbraio 2005. La coppia, che aveva già un figlio in stato vegetativo, venuta a conoscenza delle mutazioni genetiche del feto (affetto dal morbo di Canavan), ha deciso di donarlo alla ricerca. Secondo la ricostruzione effettuata dalla ricercatrice, infatti, i due coniugi avrebbero scelto questo strada proprio per cercare di capire l'origine del male che ha colpito i due loro figli. In quel periodo, però, la dottoressa Leone era stata informata dell'impossibilità di "spedire" il feto negli Stati Uniti.

E' a quel punto che entra in gioco il professor Angelo Vescovi, sentito in Procura a Milano dal pm che segue l'inchiesta alla presenza degli investigatori della squadra mobile che si occupano degli accertamenti. La dottoressa Leone avrebbe chiesto a Vescovi, responsabile del centro di ricerca in cui è stato trovato, di conservarglielo in attesa che fossero sbrigate le procedure burocratiche per la sua spedizione. Il professore all'epoca dei fatti lavorava al San Raffaele, ma che con ogni probabilità al momento del suo trasferimento in Bicocca tra il materiale di ricerca che è stato spostato al laboratorio era stato inserito anche il feto. C'è da dire che entrambi i Prof. hanno assicurato di non aver mai visto il feto da vicino, anche se la donna era convinta che si trattasse solamente di tessuto cerebrale come era stato indicato in diverse mail in cui era stata informata della questione e non di un corpicino vero e proprio. A questo punto gli inquirenti dovrebbero visionare proprio quelle mail che nel 2005 i due ricercatori si erano scambiati in modo tale da verificare che la procedura seguita sia stata effettivamente quella raccontata negli interrogatori.

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