Prima ci sono state le maschere rituali indigene disseppellite in Alaska, poi il cucciolo di leone delle caverne trovato in Yakuzia, poi un lupo dell’era glaciale perfettamente conservato, di recente è stato riportato in vita un rotifero intrappolato nei ghiacci da 24.000 anni: a giudicare dai titoli che periodicamente affiorano ovunque in rete, il permafrost parrebbe una sorta di grande scrigno refrigerato ricolmo di tesori archeologici e paleontologici. Del resto parliamo di uno spesso strato di terreno congelato da decine di migliaia di anni, che oggi custodisce resti e testimonianze di tutto l’arco temporale che ha ospitato la civiltà umana.
Dal punto di vista di uno scrittore mistery (o thriller, volendo) è una cornucopia di possibilità narrative, dal punto di vista di una persona che vive in questo mondo (e intende viverci per i prossimi decenni), invece, è uno dei più pericolosi elementi di minaccia legati al riscaldamento globale.
Di che cosa parliamo quando parliamo di permafrost
Con il termine permafrost si indica un tipo di terreno caratterizzato da un suolo che rimane congelato lungo tutto il corso dell’anno, e che si trova prevalentemente nelle regioni artiche dell’emisfero nord. Parliamo di un tipo di terreno che si estende per oltre 23 milioni di chilometri quadrati, coprendo vaste aree di Groenlandia, Canada, Alaska e Siberia, con una profondità che nei punti più freddi del globo può raggiungere i 1500 metri. Mentre lo strato superficiale può parzialmente sciogliersi nei periodi più caldi dell’anno, e consentire alla vegetazione di ricoprirli, quelli più profondi sono sigillati da uno spesso strato di terreno congelato, il che per molto tempo ha impedito a tutto quello che vi è al di sotto di raggiungere il mondo esterno.
Ma questa situazione sta cambiando. Negli ultimi vent’anni il pianeta si è riscaldato sempre più velocemente, e questo vale in particolare per le zone artiche, dove le temperature hanno già superato i 2 gradi sopra i livelli pre-industriali. E siccome le calotte polari riflettono l’80% della radiazione solare, mentre le acque ne assorbono quasi il 90%, la riduzione di questi strati di ghiaccio porta dunque a un aumento di temperatura delle acque che a sua volta comporta lo scioglimento di altro ghiaccio, portando a un ciclo di retroazione rischioso.
Un processo inarrestabile
E se questo ciclo di retroazione è rischioso è per via di ciò che il permafrost custodisce. Nel corso dei millenni, infatti, in questi terreni si è accumulata una quantità enorme di materiale organico, sotto forma di piante e animali morti. Nel momento in cui il permafrost si scioglie, questo materiale viene esposto all’azione dei batteri, che decomponendolo portano al rilascio di anidride carbonica e metano. Si calcola che nel permafrost oggi siano sigillati 500 miliardi di tonnellate di carbonio, praticamente il doppio di quanto è presente nella nostra atmosfera. Il rischio a cui andiamo incontro, dunque, è che lo scioglimento del permafrost inneschi un processo continuo di decomposizione e riscaldamento che potrebbe essere inarrestabile, soprattutto se si considera che lo scioglimento del permafrost, una volta che raggiunge gli strati profondi, è praticamente irreversibile.
Ma c’è dell’altro: il rilascio di questi gas serra potrebbe essere meno graduale del previsto, considerando l’aumento significativo degli incendi in queste zone (e in particolare degli incendi sotterranei, capaci di rilasciare quantità molto più ingenti di gas) e considerando la presenza nel permafrost di giacimenti che potrebbero immettere nell’atmosfera quantità pericolose di metano (un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica, seppur meno persistente).
Stando ai calcoli il Mar Glaciale Artico potrebbe rimanere senza ghiaccio durante le estati già entro il 2040, e di qui alla fine del secolo potremmo arrivare a perdere oltre 5 milioni di chilometri quadrati di permafrost. Una prospettiva che è necessario scongiurare, anche perché creerebbe una serie di problemi che vanno oltre la questione climatica.
Conseguenze ecologiche (e potenzialmente sanitarie)
Se vi avventurate in alcune zone della taiga nordamericana o siberiana e probabile che prima o poi vi imbatterete in una strana foresta i cui alberi sono inclinati in direzioni diverse come grossi bastoncini mikado. Si tratta delle cosiddette “foreste ubriache” e spesso sono sintomo di un territorio in cui il permafrost, sciogliendosi, ha creato delle depressioni sotterranee che hanno tolto stabilità agli alberi. É solo una delle conseguenze ecologiche visibili di questo processo. Bisogna infatti tenere conto che lo scioglimento del permafrost ha come primo effetto un cambiamento degli strati superficiali, che diventano accessibili a specie che prima ne stavano alla larga. Lo scorso mese una nuova ricerca ha rivelato come in Alaska i castori si stiano insediando in zone prima inaccessibili della tundra, creando nuove dighe che a loro volta incidono sullo scioglimento di ulteriore permafrost.
C’è poi una minaccia ecologica connessa a tutti i microorganismi che da millenni riposano nel permafrost. Negli ultimi anni sono stati trovati batteri risalenti a decine di migliaia di anni fa che, una volta scongelati, hanno dimostrato di poter tornare attivi. Del resto, basta pensare alle centinaia di renne morte nella penisola di Jamal, in Siberia, nell’estate del 2016. L’insolita ondata di calore di quell’anno ha portato allo scioglimento di uno spesso strato di permafrost, rilasciando spore di antrace che erano rimaste sigillate per secoli e che hanno infettato prima le renne e poi alcune persone con cui erano entrate in contatto.
Ma le paure maggiori sono legate ai virus che lo scioglimento di questi serbatoi ghiacciati potrebbero disperdere. Sappiamo che nel permafrost sono custoditi virus di diversi tipi (calicivirus, virus influenzali, enterovirus e altri), e che questi sono ancora in grado di infettare un organismo, nonostante ancora non si siano registrati casi di umani infettati; quello che non sappiamo è quali altre tipologie virali potrebbero riposare nel sottosuolo da millenni, e che effetti potrebbero avere una volta liberati all’esterno.
Un problema strutturale
Il 29 maggio del 2020, le fondamenta che reggevano un serbatoio della compagnia mineraria russa Nirlsk Nickel hanno ceduto, riversando 21000 tonnellate di diesel nei corsi fluviali della zona. Per interi giorni la massa rossastra di gasolio ha avanzato lungo il fiume Ambarnaya, creando danni ambientali incalcolabili, secondo alcuni paragonabili allo sversamento della petroliera Exxon Valdez del 1989. Si tratta di uno dei peggiori disastri ecologici nella storia della Russia, ed è anch’esso stato causato dal rapido scongelamento del permafrost che forniva sostegno alle strutture. Non è il primo e di certo non sarà l’ultimo, considerando che il permafrost oggi copre il 55% del territorio russo e che in alcuni casi sorregge intere città. È il caso di Jakutsk e Noril’sk, due insediamenti di 350.000 e 220.000 abitanti rispettivamente, erette secoli fa sull’enorme striscia di permafrost che copre buona parte della Siberia orientale. Che la scelta di edificare in quelle condizioni non fosse una grande idea fu chiaro già quando vennero costruiti i primi edifici di grandi dimensioni: il calore generato dalle tubature e dalla struttura infatti col tempo finiva per riscaldare il permafrost, provocando crolli e cedimenti. È per questo motivo che oggi tutti gli edifici in queste zone vengono costruiti su piloni interrati, che comunque devono essere periodicamente refrigerati a loro volta per evitare scongelamenti. Ma è chiaro che, al ritmo a cui il riscaldamento globale sta avanzando, ogni struttura che poggia sul permafrost è considerabile a rischio, strade, edifici e stabilimenti industriali compresi.
E attenzione, il problema non riguarda solo la Siberia, anche in Italia stiamo già assistendo alle conseguenze di questo processo: le frane sempre più frequenti che si registrano in alcuni punti delle Alpi delle dolomiti sono infatti imputabili al fatto che al di sopra del 2600 queste montagne ospitano terreni ghiacciati da secoli, altro permafrost che progressivamente si va sciogliendo.
L’illusione della stazionarietà
Oltre a ricoprire un ruolo cruciale per gli equilibri climatici del pianeta, la situazione attuale del permafrost è paradigmatica dell’approccio errato che abbiamo avuto in secoli di industrializzazione, urbanizzazione e colonizzazione degli ambienti: chiunque abbia deciso di costruire città, fabbriche e infrastrutture su un terreno congelato l’ha fatto nella convinzione che quelle condizioni non sarebbero mutate; almeno, non in tempi umani. E ne avevano ottime ragioni: per migliaia di anni il clima aveva oscillato entro una forbice piuttosto stretta, abbastanza da creare l’illusione di una stazionarietà eterna. È su questa illusione di stazionarietà che abbiamo costruito la nostra civiltà, e non è un caso che l’essere umano, che calca questo pianeta almeno da 200.000 anni, abbia conosciuto un’epoca di crescita tecnologica esponenziale solo negli ultimi 10.000 anni. Il risultato è che oggi i capisaldi del nostro modo di vivere sono ancorati a una stabilità che ogni giorno risulta sempre più compromessa: la crisi climatica sta creando cortocircuiti in ogni ambito della nostra esistenza. E questo perché abbiamo sempre dato per scontato che il terreno su cui abbiamo eretto la nostra civiltà sarebbe rimasto solido e piano per sempre. Lo scioglimento del permafrost, in un certo senso, sancisce la fine di un’illusione.