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Rina Fort, la ‘belva’ di San Gregorio che massacrò a sprangate la moglie e i figli del suo amante

Il piccolo Antoniuccio aveva solo 10 mesi quando venne trovato cadavere nel seggiolone del freddo appartamento di via San Gregorio, a Milano. Sul pavimento i corpi senza vita dei fratellini e di mamma Franca. La strage della famiglia Ricciardi fu uno degli episodi più bui della storia d’Italia.
A cura di Angela Marino
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"Dalla portina, alle 9.30, una donna entra nella gabbia. Ha un paltò nero, un poco infagottato. Una sciarpa di lana giallo chiaro, gettata sulla spalla, le copre metà faccia. Tiene la testa china e si nasconde gli occhi con le mani, nere anch'esse per i guanti di filo. Pure i capelli, spartiti lateralmente con cura e raccolti sulla nuca, sono neri. Sembra una di quelle penitenti che si vedono inginocchiate nell'angolo più buio della chiesa dalle cinque del mattino. Invece è Rina Fort, la ‘belva'". È la penna di Dino Buzzati a descrivere con tagliente precisione l'ingresso in aula di Caterina Fort, detta Rina, l'autrice di una delle stragi più feroci del secondo dopoguerra.

La ‘strage degli innocenti'

Via San Gregorio, civico 40, anno 1946. Sono le 20 e la famiglia Ricciardi si prepara a cenare. In casa, infagottati con maglie e cappotti per resistere al primo freddo senza riscaldamento, ci sono la signora Franca, Giovannino di 9 anni, Giuseppina di 5 e Antoniuccio, di 10 mesi. Il campanello suona risvegliando la signora dal torpore della routine domestica. Franca apre la porta e ha un sussulto: si trova davanti la donna per cui ha deciso di attraversare il Paese. Caterina Fort, l'amante di suo marito, quella che Giuseppe ormai presentava agli amici come sua moglie, era in piedi davanti a lei. Ed era arrabbiata.

Chi è Rina Fort, la ‘Belva di via San Gregorio'

Rina aveva avuto una vita difficile. Il padre morì durante un'escursione in montagna; il suo fidanzato morì di tubercolosi poco prima del matrimonio. Dopo questo colpo la ragazza scoprì di essere sterile. A 22 anni sposò Giuseppe Benedet, che il giorno delle nozze diede segni di squilibrio fino al ricovero in manicomio. Una vita costellata di sciagure fino al trasferimento a Milano, dove nel 1945, conobbe Giuseppe Ricciardi. Era sposato, ma come tanti suoi conterranei siciliani aveva lasciato moglie e figli al Sud per trasferirsi in via Tenca, dove aveva aperto un negozio di stoffe. Lì era avvenuto l'incontro tra i due. Rina era approdata nell'esercizio commerciale come commessa e poi era diventata quasi una socia in affari. I due erano andati a vivere insieme presentandosi ai vicini come marito e moglie. Questo menage era andato avanti finché qualcuno non aveva riferito alla signora Franca di quella relazione. Decisa a non perdere il marito, la donna aveva fatto armi e bagagli ed era partita da Catania, con i tre figli, alla volta di Milano. Così nell'ottobre del 1946 Franca Pappalardo si ricongiunse al marito. Rina Fort fu licenziata e la sua relazione con Ricciardi si interruppe.

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Il movente

"Cara signora lei si deve metter l'animo in pace e non portarmi via Pippo, che ha una famiglia con bambini. La cosa deve assolutamente finire, perché sono cara e buona, ma se lei mi fa girare la testa finirò per mandarla al suo paese". Fu con queste parole dette con benevolenza e fermezza insieme che Franca volle comunicare a Rina le sue intenzioni: non si sarebbe messa da parte. Andò dunque nella stanza attigua a prendere una bottiglia di rosolio che aveva intenzione di offrire alla sua rivale. Un gesto di cortesia per un incontro così peculiare, ma anche una premura perché Rina si riavesse da un leggero malore che aveva manifestato poco prima. Franca lasciò nuovamente la stanza, quando tornò trovò una scena inaspettata.

Rina Fort le si parava davanti con un ferro tra le mani. Fu l'ultima immagine che – per fortuna – Franca riuscì a vedere. Un'ora dopo la stanza era un teatro di morte: i corpi dei piccoli Giovannino e Giuseppina giacevano riversi nel loro sangue, come bambolotti, a faccia  in giù. Franca invece era distesa distante pochi metri dai corpi dei piccoli. Accanto alla porta che separava la cucina dalla stanza da pranzo, ancora seduto sul seggiolone, c'era il piccolo Antoniuccio, dieci mesi, con la testa riversa di lato e un pannolino in bocca. erano stati uccisi a sprangate e, non ancora morti, erano stati finiti con dell'ammoniaca. L'indomani fu Pina Somaschini, la nuova commessa del negozio di Pippo Ricciardi a scoprire i corpi. Era andata a via San Gregorio 40 per prendere le chiavi dell'esercizio commerciale mentre il proprietario era a Prato per comprare stoffe. Avendo trovato l'uscio socchiuso, la donna si era fatta avanti in cerca della padrona di casa, ignorando che cosa si celasse dietro quella porta. Scoperta la strage avvertì immediatamente la polizia. In poche ore agenti e fotografi erano sulla scena del crimine. Inizialmente si pensò ad una rapina, ma un bicchiere con una macchia di rossetto rosso portò immediatamente i sospetti del commissario Nardone in un'altra direzione.

La "nausea" di quel delitto atroce, come scriverà ancora Dino Buzzati, che di quel caso fu cronista per il Nuovo corriere della sera, riempì i vicoli e le strade di una Milano che dai tempi della guerra, non vedeva più un orrore simile. Una settimana dopo Rina Fort era indagata per omicidio. Talmente chiara era la natura passionale di quella strage che la polizia non ebbe bisogno di guardare lontano. Fu la stessa Rina a confessare, ripercorrendo quella fredda sera di novembre:

Accecata dalla gelosia, oltre che eccitata dal liquore, mi alzai andandole incontro. Giunta nell'anticamera l'incontrai mentre tentava di venire in cucina. Mi avventai sopra di lei e la colpii ripetutamente alla testa con un ferro che avevo preso in cucina. La Pappalardo cadde tramortita sul pavimento, io continuai a colpirla. Il piccolo Giovannino, mentre colpivo la madre, si era lanciato in difesa di lei afferrandomi le gambe. Con uno scrollone lo scaraventai nell'angolo destro dell'anticamera e alzai il ferro su di lui. Poi entrata in cucina, colpii la Pinuccia; ad Antoniuccio, seduto sul seggiolone, infersi un solo colpo, in testa.

"I bambini non li ho toccati"

Il 10 gennaio 1950 cominciò il processo a Rina Fort, accusata di strage. La giovane si presentò in aula calzando guanti neri e con una vistosa sciarpa gialla intorno al collo, tanto che fu battezzata dalla stampa "La belva con la sciarpa color canarino". Nessuno poteva credere che quella donna dal contegno austero e lo sguardo schivo fosse stata capace di uccidere una madre e i suoi tre figli in tenerissima età, di cui uno "lattante", come si diceva all'epoca. E forse non era stato così. Forse una donna sola non poteva aver avuto la forza di compiere quel massacro. Si sospettò che Rina avesse dei complici. Si sospettò che potesse aver agito in combutta con l'amante Pippo Ricciardi, la cui condotta apparve ambigua ai giudici. La notte del delitto Ricciardi si trovava a Prato, tuttavia, quando apprese della strage in Questura, si precipitò verso l'amante esclamando "Rina mia!", benché fosse al corrente del fatto che era sospettata del delitto. Quanto a Rina, cambiò versione otto volte, negando di aver ucciso i bambini. Era quello, secondo la morale comune, il crimine più abietto. Alla fine i giudici si pronunciarono condannando Rina al carcere a vita. Quando si aprirono le porte del carcere, Rina abbracciò una condotta impeccabile e dopo diversi decenni, nel 1975, chiese e ottenne la grazia dal presidente della Repubblica dell'epoca, Giovanni Leone. Chiese anche il perdono della famiglia Pappalardo, cui aveva strappato la figlia e tre nipoti. Giuseppe Ricciardi, che intanto si era risposato e aveva avuto un figlio, rifiutò sempre di concederle il suo perdono. Ormai settantenne, Rina lasciò il carcere dopo 30 anni di reclusione e andò a vivere a Firenze, sotto il cognome di Benedet. Lì trovò accoglienza presso una famiglia con la quale rimase fino alla morte, che la sorprese all'età di 71 anni.

"I bambini non li ho toccati", avrebbe detto fino alla fine dei suoi giorni.

Dopo la condanna, calato il sipario sulla sorte di quella regina delle tenebre friulana, l'Italia non fu più la stessa. Lacerata, si domandava come fosse possibile che una donna qualunque, una donna normale, come tutte, si fosse scatenata in una parossismo di ira così potente da portare al massacro di una mamma e i suoi bimbi. Non era più la guerra a tirare fuori il peggio dell'animo umano, erano le contingenze, i sentimenti, la vita reale. E allora quello accadde in via San Gregorio poteva accadere a tutti, ogni giorno. Non c'era limite giuridico o psichiatrico al male. Scriveva Dino Buzzati a pochi giorni dalla strage:

"Un sottile e impalpabile panico si è irradiato dal sinistro numero 40  Noi siamo ben chiusi in casa con le porte sprangate, eppure lo sentiamo vagare intorno, nelle ore alte della notte, e strisciare lungo le trombe delle scale. Di chi è la colpa se è venuto? Potrebbe essere quell'ombra che scompare adesso dietro l'angolo, potrebbe essere quello sconosciuto che ci fissa per via senza apparenti ragioni. Uno giorno all'altro chi può escludere che non si affacci anche alla nostra porta? Non si può mai giurare. Egli gira invisibile, covando il male, e non sarà mai stanco. Bisogna scovarlo, occorre togliergli l'aria, incalzarlo oltre i confini estremi della città, respingerlo fino alle lontane foreste del buio da dove è riuscito a fuggire".

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Giornalista dal 2012, scrittrice. Per Fanpage.it mi occupo di cronaca nera nazionale. Ho lavorato al Corriere del Mezzogiorno e in alcuni quotidiani online occupandomi sempre di cronaca. Nel 2014, per Round Robin editore ho scritto il libro reportage sulle ecomafie, ‘C’era una volta il re Fiamma’.
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