Revocata la scorta a Tiberio Bentivoglio, l’imprenditore anti ‘ndrangheta: “Uno schiaffo dallo Stato”
Il negozio di Tiberio Bentivoglio si trova a pochi passi dal mare, in una delle vie centrali di Reggio Calabria. La sua Sanitaria Sant'Elia è la prima attività commerciale in Italia con sede in un bene confiscato alla criminalità organizzata. E per anni fuori l'ingresso del negozio, per proteggerlo, c'era anche una camionetta dell'esercito. Perché? Perché Tiberio Bentivoglio e la sua famiglia hanno sempre rifiutato di pagare il pizzo alla ‘ndrangheta: "È la cosa peggiore che possa fare un commerciante. Pagare il pizzo significherebbe diventare servi e accettare la sottomissione", ha sempre precisato Bentivoglio. Questo suo rifiuto però gli è costato caro.
Il primo atto intimidatorio è arrivato a soli due mesi e mezzo dall'inaugurazione, il 10 luglio 1992: nel negozio entrano i ladri. Nel 1998 un altro furto e il furgone della sanitaria viene dato alle fiamme. La notte del 5 aprile del 2003 una bomba rudimentale devasta il negozio. Sono tutte le ritorsioni della criminalità organizzata. Il 9 febbraio del 2011 la mano armata della ‘ndrangheta scaglia contro Tiberio Bentivoglio una raffica di proiettili. Tiberio si salva per miracolo.
Il tentato omicidio è l'ennesimo attimo intimidatorio della criminalità organizzata per farlo piegare alle sue richieste. Bentivoglio rimane "colpito" (come il titolo di un suo libro), ma sopravvive. Tiberio Bentivoglio neanche allora ha pensato di lasciare la sua Calabria. Ancora oggi vuole rimanere a casa sua. In breve tempo così Bentivoglio diventa uno degli imprenditori simbolo alla lotta alla mafia. Gira conferenze e scuole, da Nord a Sud, per raccontare la sua storia: non si è mai nascosto.
Questa settimana però lo Stato ha revocato la scorta a Tiberio Bentivoglio, e quindi la protezione a tutta la sua famiglia. Eppure solo pochi mesi fa nel suo negozio sono stati recapitati fazzoletti imbevuti di sangue. Ma questo non è che uno dei tanti atti intimidatori anonimi di cui è ancora bersaglio ogni anno: "Perché la ‘ndrangheta non dimentica". Eppure per lo Stato Tiberio Bentivoglio non ha più bisogno di protezione.
Come e quando lo Stato ti ha fatto sapere la sua decisione?
Tre mesi fa mi hanno chiesto tutti i documenti che riguardano la mia storia: quindi tutte le denunce, le carte sul mio tentato omicidio, le lettere minatorie. Insomma tutto. Volevano analizzare il mio status, che è ancora allarmante. Invece poi ho capito che allo Stato serviva tutto questo per decidere poi di togliermi la scorta.
Hanno chiamato martedì. Io stavo uscendo da una scuola, avevo tenuto un incontro come capita spesso. Hanno chiamato il capo scorta e hanno dato la notizia della revoca: mi hanno fatto rientrare a Reggio Calabria, poi dalla sera stessa non ho più avuto la scorta. Una chiamata, non ho neanche dovuto firmare un foglio. Nessun preavviso quindi. Nessuna motivazione. Tanto silenzio.
Ti opporrai a questa decisione?
Stiamo preparando un esposto in Procura e poi faremo ricorso al Tar del Lazio. Intanto ho disdetto tutti i miei impegni fuori dalla mia città.
Cosa rischi ancora oggi?
Il pericolo effettivo è che nessuno ha ancora trovato chi mi ha sparato. Potrebbe abitare a pochi metri da casa mia. Non sappiamo neanche chi mi ha fatto l'ultimo atto intimidatorio. Non c'è ancora un nome. Eppure la mafia non dimentica. Sa che il mio negozio è in un bene confiscato. Aveva ragione Giovanni Falcone, diceva che ci vogliono due animali per definire la mafia: la pantera e l'elefante, per la memoria. È lo Stato invece che dimentica.
Non è la prima volta che lo Stato ti volta le spalle…
Io ancora non ho un conto corrente, me lo hanno bloccato. Ho la casa ipotecata da 20 anni: questo significa che la banca non può farmi nessun prestito, un mutuo. Non ho più nessuna garanzia. Le mie garanzie se le sono prese lo Stato. Adesso, dopo la revoca della scorta, è come se fossi agli ‘arresti domiciliari'.
Hai paura?
Sì, ho paura di uscire di casa. E anche il timore di andare via lontano pensando che mia moglie e la mia famiglia siano in pensiero per me perché sono da solo. Così ho deciso di non lasciare più Reggio Calabria e di annullare i miei tanti impegni fissati nelle scuola, dove da anni porto la mia testimonianza. Non accetto che la mia famiglia stia in pensiero. Sono 32 anni che sto in questo mare di guai.
E pochi anni fa ti hanno tolto anche la camionetta dell'esercito fuori dal negozio…
I militari sono andati via 5 anni e tre mesi fa. E anche in quel caso senza un minimo di preavviso. Un pomeriggio entra un militare e saluta mia moglie. Lei gli dice: "Ci vediamo domani". E lui: "No signora mi dispiace, ma ci hanno detto di non tornare. Hanno tolto il dispositivo". Erano sorpresi anche loro. Se questa è l'Italia. Si chiama democrazia questa? Ditemi cosa ho fatto di male per essere stato trattato così.
Cosa pensi di fare ora?
Adesso sto pensando di chiudere il negozio. Proprio ieri sera con mia moglie abbiamo iniziato a pensarlo. Ho perso la dignità con la ‘ndrangheta, non voglio perderla anche con lo Stato. Non si meritano uno come me. Ricevere questi schiaffi da chi ti deve aiutare. Accetterei un altro incendio dalla ‘ndrangheta, ma non posso accettare uno schiaffo dallo Stato. Sono deluso. Anche perché non so chi sia il responsabile di questa revoca, non è firmata da nessuno. Per me non hanno letto i miei documenti.
Qualche rappresentante dello Stato ti ha chiamato per solidarietà?
Alcuni sì: tanti istituti e camere di commercio. Ma nessun politico di grande importanza. Inoltre è da oltre un anno che ho chiesto alla Commissione Antimafia di sentirmi, non mi hanno mai risposto. Continuerò a chiedere aiuto, continuerò a chiedere un pezzo dello Stato al mio fianco. Ora invece è latitante.