Reportage dall’Uganda, nel campo profughi di Palabek: “Oltre 40mila persone in fuga dall’inferno”
Oltre 4 milioni di persone costrette a fuggire dal proprio Paese e quasi 400mila vittime a causa degli scontri armati, ma anche di malattie e carenza di cibo. Sono i numeri terrificanti della guerra civile in Sud Sudan, lo Stato più giovane del mondo, indipendente da appena otto anni, ma ancora senza pace: dal 2013 fino alla scorsa estate nel Paese centro africano le tensioni sono continuate quasi senza sosta. E anche oggi, nonostante la tregua firmata ad agosto, il clima è tutt’altro che disteso. Per migliaia di persone non resta quindi che fuggire, soprattutto verso l’Uganda, una nazione vicina e il cui governo ha messo a disposizione dei profughi un’area da 400 chilometri quadrati per offrire uno spazio sicuro a chi la sicurezza, ormai, non sa più che cosa significhi. Si tratta dell’insediamento di Palabek, a circa 50 chilometri dal confine sud sudanese.
Attualmente i rifugiati sono circa 40.000, prevalentemente giovani donne e bambini. “L’86% dei rifugiati sono ragazze di 22 e 23 anni con almeno due o tre figli” racconta Padre Lazar Arasu, missionario dell’India, fra i primi ad arrivare in Uganda da quando i salesiani, nel 2017, hanno deciso di portare qui la loro quinta missione nel Paese.
Presenti in Uganda dal 1988, i missionari di Don Bosco hanno deciso di dare il proprio contributo nel campo di Palabek partendo dalle persone più fragili. Le priorità sono infatti l’educazione dei bambini (tanti gli orfani presenti nell’insediamento) e alla formazione dei giovani. A gennaio 2018 è stata inaugurata una scuola professionale con corsi e laboratori di agricoltura, costruzione, sartoria, parrucchiere e meccanica moto.
Ma non è tutto. Nella scuola secondaria e nelle materne dell’insediamento, dove sono attive anche altre associazioni, Nazioni Unite comprese, ovviamente, i salesiani servono pasti per i più piccoli, senza tra l’altro dimenticare, proprio come ha sempre insegnato Don Bosco, anche l’aspetto ludico.
“Questo non è un semplice campo, ma un insediamento nelle quali ogni famiglia ha uno spazio per costruirsi una casa” ricorda Padre Ubaldino Andrade, venezuelano. Poi ci sono altri due fratelli congolesi, uno di Brezzaville e un altro indiano. Tutti instancabilmente al fianco di persone “costrette ad abbandonare le proprie comunità, affrontando a piedi viaggi lunghissimi, a causa della guerra ma anche della mancanza di cibo”.
Qui, nonostante le oggettive difficoltà, i rifugiati trovano invece assistenza alimentare e medica, con la speranza prima o poi di poter tornare nel proprio Paese. Un Paese dove si rischia ancora di morire anche a causa della precaria situazione sanitaria, dove i bambini vengono arruolati dai militari per diventare dei soldati e dove le donne rischiano ogni giorno di subire brutali violenze sessuali.
“Vorrei tornare ma finchè non ci sarà la pace è impossibile” racconta gran parte dei profughi accolti nel campo di Palabek, all’interno del quale, per guadagnare qualche soldo nella speranza di tornare presto ad una vita normale, c’è chi è riuscito a mettere in piedi un vero e proprio mercato e chi, soprattutto giovani ragazze, passa le giornate a rompere le pietre, da rivendere poi al prezzo di 20 dollari per ogni tonnellata.
“L’Uganda per loro è una porta aperta, una casa, mentre ci sono Paesi che non accolgono neanche un rifugiato” sottolinea Padre Andrade, quotidianamente circondato da persone che, nonostante tutto, nutrono ancora la speranza di poter ricominciare da zero in maniera decisamente più serena. Non è facile, ma basta guardare negli occhi chi vive dentro l’insediamento di Palabek per rendersi conto che nessuno di loro, malgrado le atrocità conosciute finora, pensa che sia davvero finita.