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Opinioni

Reportage da San Vittore, tra Corona e gli altri: viaggio nel buio dei dannati

Reportage dal carcere San Vittore, al centro di Milano. Fanpage.it racconta la vita dietro le sbarre e gli incontri con Fabrizio Corona, il re dei paparazzi, e Monica Lovato, la donna che sfigurava i ragazzi con l’acido.
A cura di Luisa Cornegliani
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Il buio. Quello che più colpisce quando si entra a San Vittore, il carcere simbolo di Milano, è il buio. L'assenza di luce è sconvolgente perché il penitenziario si trova in realtà in una grande piazza luminosa. Ma le finestre sono molto piccole, i corridoi angusti, le sbarre fanno il resto e così man mano che si cammina nel vecchio carcere è facile perdere l'orientamento e non sapere più dove ci si trova. Sono gli agenti di polizia penitenziaria a guidare il visitatore che perde il senso dell'orientamento: si è in centro a Milano, a pochi passi dal Duomo, all'interno della circonvallazione, ma si potrebbe essere ovunque.

In un angolo qualunque dell'inferno, anche se in questo inferno ci sono degli angeli: i circa 500 agenti, quasi tutti del Sud, che vi lavorano ogni giorno con dedizione, guidati da un comandante donna, Manuela Federico. Cercano di assolvere, come spiegano, al loro doppio incarico: quello di poliziotti che devono tenere a bada centinaia di detenuti in attesa di giudizio, e di psicologi, che si devono rendere conto di ogni loro stato d'animo per evitare risse, liti e atti di autolesionismo. L'impresa non è facile dal momento che, stando alle statistiche, circa il 50 per cento dei detenuti che ogni giorno entrano a San Vittore ha problemi psicologici o psichiatrici. Un'altra caratteristica di San Vittore è il rumore delle chiavi che aprono e chiudono ogni porta, ogni cella. Gli agenti le portano attaccate alla cintura della divisa, sono una decina, sono d'oro e pesano  tantissimo. Del resto San Vittore è stato costruito nel 1879 e così è rimasto nei secoli, ad accogliere chi ha commesso reati a Milano.

La Rotonda di San Vittore dove a marzo il Papa ha incontrato i detenuti.
La Rotonda di San Vittore dove a marzo il Papa ha incontrato i detenuti.

Al centro c'è la rotonda, una sorta di piazza da cui partono i vari raggi. Era stato costruito così per permettere alle guardie da questa fantomatica piazza di sorvegliare tutti i detenuti e tutti i bracci. Oggi in quella rotonda Papa Francesco ha incontrato i detenuti e ha stretto loro le mani, ha fatto da sala per la visita del Pontefice.

Il primo raggio

Una piccola scala porta al primo raggio. Sono rinchiusi i detenuti cosiddetti “giovani adulti”. Hanno tutti più di 18 anni e meno di 24. E' il braccio che – parola di polizia penitenziaria – è il più complicato perché i ragazzi che vi sono rinchiusi hanno spesso compiuto crimini violenti o legati alla droga, sono divisi in bande, soprattutto quelli sudamericani, e basta una sciocchezza a infuocare i loro animi rabbiosi. Dice l'agente: “Sono furiosi per il loro passato difficile, perché sono qui dentro in attesa di processo, perché la loro vita è molto complicata”.

Due ragazzi romeni, pieni di muscoli, accettano di mostrare la loro cella: tre letti, il bagno che fa anche da cucinino, i panni stesi alle grate, su un tavolo l'insalata ammuffita. Nelle celle, qui come negli altri raggi, non ci sono sedie, ma un piccolo sgabello dove si siedono a turno. Appena si entra si legge scritto su un muro “mia mamma è la mia vita e la mia vita è una “mer—a”. Appese al muro occhieggiano super modelle, foto strappate dai giornali, e accanto ci sono motti delle bande sudamericane come la Mara salvatrucha 13 (MS13) .

“Qui sono stati rinchiusi tanti ragazzi sudamericani appartenenti alle bandillas, ci sono stati anche quelli che nell'estate del 2015 hanno tagliato il braccio al controllore delle Ferrovie Nord”, spiega l'ispettore del reparto quasi a giustificare le iscrizioni in spagnolo rimaste sui muri: invocazioni a Dio, alla mamma, alla ragazza e ai compagni e vane dichiarazioni di superiorità. Fuori girano tra le celle, che restano sempre aperte fino alla sera, un sacco di ragazzi tatuati, persino in viso e attorno agli occhi.

Gli italiani sono pochi. Sono tanti invece, i magrebini che però, sono i più tranquilli. Continua un agente: “Sono tutti spacciatori, l'ultimo gradino della scala criminale e hanno messo in conto di finire in galera se beccati con qualche grammo di stupefacente e quindi ci restano senza fare troppi problemi. Una guardia sorride: “E poi in questo momenti c'è qualche africano. Per loro questo è il paradiso: mangiano due volte al giorno e hanno un tetto sulla testa. A volte il problema è obbligarli a indossare le scarpe. Preferiscono restare a piedi scalzi… tocca a noi spiegare loro che devono per forza mettersele e farsi la doccia ogni giorno prima che i compagni di cella si arrabbino”.

Una delle salette per i colloqui con i famigliari.
Una delle salette per i colloqui con i famigliari.

Il terzo raggio

Nel terzo raggio sono rinchiusi i detenuti con problemi di droga, che rappresentano il 30 per cento della popolazione carceraria di San Vittore. I più sono già in cura all'Asl e dipendono dall'eroina. In questo momento tra i tanti carcerati qualunque di questo braccio ce n'è anche uno vip, Fabrizio Corona, che si aggira in infradito e calzoncini corti, tenuta da palestra. Qui fa ginnastica anche usando le grosse porte delle celle, tirandosi su e giù.

Fabrizio Corona nella cella del carcere di San Vittore. Era il 2007: corrompendo un agente riuscì a introdurre una macchina fotografica.
Fabrizio Corona nella cella del carcere di San Vittore. Era il 2007: corrompendo un agente riuscì a introdurre una macchina fotografica.

Nel lungo corridoio camminano detenuti frastornati, dagli occhi persi chissà dove, imbottiti di psicofarmaci. Uno parla inglese e si dice disperato. Le guardie lo ascoltano pazienti mentre parla  garbatamente, e poi spiegano che è rinchiuso da diversi mesi in attesa di giudizio e che soffre molto… perché prima, prima di San Vittore, era un ingegnere di una nota azienda informatica statunitense. La sua vacanza in Italia si è trasformata in un incubo: il 5 ottobre avrebbe accoltellato un 27enne del Gambia in una nota discoteca. Dopo l'aggressione di cui il giovane americano dice di non ricordare nulla, si rifugiò sul tetto di un edificio non lontano dal locale, dove i carabinieri lo arrestarono sporco di sangue e in stato di evidente alterazione. Da allora è a San Vittore con l'accusa di tentato omicidio, non sa una parola di italiano e e rivendica la sua improbabile innocenza mentre la sua vita è andata a rotoli come quella del suo vicino di cella, Corona.

Le visite di Silvia a Fabrizio Corona

Dicono che l'ex re dei pararazzi aspetti con ansia le visite della fidanzata, Silvia Provvedi. Avvengono a piano terra, in minuscoli stanzini, su sedie di plastica attorno a un tavolino anch'esso di plastica, sotto l'occhio vigile di un agente che per via dei vetri non può sentire, ma vede e sorveglia tutto. Spesso – raccontano gli agenti – Silvia Provvedi viene accompagnata dalla propria madre. Porta il suo pacco che pesa al massimo 5 chili, per un totale di 20 al mese. Sul muro della cella dov'è rinchiuso Corona ci sono tante foto tratte dai settimanali. Il rumore della televisione fa da sottofondo alle chiacchiere dei detenuti che volendo, comunque, invece, che impigrirsi in cella, possono seguire i corsi scolastici tenuti dai volontari. In un'aula poco distante c'è chi sta insegnando diritto agli alunni delle medie. “Non è propriamente una materia da scuola media, ma è certamente utile a chi ha a che fare con avvocati e giudici”, scherza l'insegnante.

Il sesto raggio, il girone dei protetti

Il braccio dei protetti a chi viene da fuori appare davvero come un girone dantesco. Per tanti motivi: perché le celle sono chiuse e rimangono tali, 24 ore su 24, per la sicurezza di chi c'è dentro – non si mai cosa potrebbero fargli gli altri carcerati -, perché chi vi è rinchiuso ha commesso reati orrendi contro donne e bambini, perché qui ci sono ex appartenenti alle forze dell'ordine e sacerdoti, criminali così abbietti che gli altri detenuti, come si dice in gergo carcerario, non vogliono e “busserebbero. Che significa? Vuol dire che busserebbero alla porta della loro cella e direbbero all'agente di polizia penitenziaria tenuto a sorvegliarli, che per il bene e la sicurezza del "nuovo" detenuto, è meglio che costui se ne vada perché nessuno lo vuole in cella: troppo osceno il crimine che ha commesso.

Regna un silenzio davvero irreale. Nella cella 228 vengono messi i rappresentanti delle forze dell'ordine che hanno commesso reati: per ovvie ragioni non possono essere mischiati con altri. Sulle celle, accanto al numero, ci sono dei bigliettini di carta su cui ci sono scritti tanti nomi stranieri e qualcuno italiano. Attraverso le sbarre si vedono barbe lunghe e occhi spiritati perché non è facile rimanere chiusi in pochi metri quadrati, anche solo per via del caldo che in questi giorni si fa sempre più insopportabile. Occhieggiano anche qui volti di modelle rubati alle pagine dei rotocalchi e immagini sacre, perché anche gli ultimi tra i carcerati hanno diritto di pregare per avere un poco di conforto o forse la speranza di un' assoluzione… Dicono che il Papa durante la sua visita abbia voluto andare in questo braccio e abbia pianto, avvertendo su di sé l'orrore e il dolore che davvero si respirano in questo lungo corridoio buio, guardando attraverso le sbarre di queste celle soffocanti.

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Il settore delle donne

L'ansia si stempera quando finalmente si arriva a visitare la parte di San Vittore dove ci sono 86 detenute, tra loro molte con pene definitive. Proprio perché destinate a rimanere a lungo tra le mura del vecchio carcere milanese a loro sono concessi privilegi che i detenuti maschi non hanno. Sono in tre per cella. Hanno le tende alle finestre per avere un poco di buio la notte. Hanno mensole su cui appoggiare libri e armadi di fortuna per mettere i loro abiti. Ovunque ci sono foto di famigliari e bambini, lasciati fuori. Dicono gli agenti di polizia penitenziaria: “Molte hanno commesso i crimini insieme ai loro uomini e quindi fuori sono rimasti i figli, affidati ai nonni. Li incontrano in una saletta a parte colorata e allegra o d'estate in giardino… così da rendere più serena la visita. In mezzo al corridoio c'è una palestra, con una vecchia ciclette e un divanetto.

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C'è seduta sopra Martina Levato, la ragazza che ha sfigurato insieme al suo amante quattro giovani innocenti e che per questo è stata condannata a 20 anni. Sorride e saluta chi passa, sembra avere l'aria rilassata. Alle porte delle celle aperte sono appesi sacchetti di stoffa con dentro il pane e altri generi di conforto. I fuochi da campeggio sono riposti in ordine su un mobile, poco prima del water. Tutto è in ordine anche le immagini dei santini, a fianco dei rossetti e dei trucchi. Tra i libri lasciati in ordine sui letti spicca sempre un Vangelo. In fondo al corridoio c'è la sartoria “Gatti Galeotti”. Una detenuta sta tessendo una splendida sciarpa e nel farlo insegna ad altre due come si fa. Si capisce che è una veterana ed è orgogliosa del suo lavoro che ha imparato una volta dentro. Ci sono tre gabbie per uccellini ma sono vuote: i canarini sono morti tutti. Dice la donna guardando in alto: “Manca davvero il canto degli uccellini per rendere questo luogo un po' più allegro”. In realtà, per molte di loro la detenzione a San Vittore è preziosa, i genitori residenti in città farebbero fatica a venire a trovarle altrove: gli altri penitenziari  sono fuori Milano.

I nuovi ingressi

Sono passate tre ore dal nostro ingresso a San Vittore e la stanza dove vengono messi i nuovi arrivati è già piena. All'inizio erano in due, ora sono una ventina. C'è chi con sé non ha nulla e chi è riuscito, prima di finire “dentro”, a portarsi qualcosa da casa e tiene stretta in mano una sdrucita borsa del supermercato da cui escono dei vestiti. Aspettano pazienti che gli sia assegnata una cella e una branda. L'ingresso in carcere prevede lunghi passaggi. Si fa una visita preliminare, utile perché appunto oltre la metà dei detenuti manifesta disturbi psichici e psichiatrici e il 30% ha problemi di droga, poi si parla con un volontario che svolge in un certo senso la funzione del confidente con cui sfogarsi, quindi si passa alla visita con lo psicologo e lo psichiatra e, infine, si decide il braccio a cui assegnare il nuovo arrivato. La cella, invece, viene scelta dall'ispettore di reparto che sa bene per esperienza e professionalità chi mettere in cella con chi per evitare risse e litigi e problemi. In casi speciali il comandante riceve il detenuto per capire cosa desideri e come si senta, soprattutto se è anziano o è malato o è un insospettabile che prima aveva una vita regolare, da colletto bianco, e d'improvviso si ritrova a San Vittore ed è di conseguenza profondamente scioccato e sofferente.

L'ora d'aria e i rumori del traffico

Il cortile esterno dove a novembre 2016  il cantante Emis Killa (sopra) ha incontrato i detenuti del settore "giovani adulti".
Il cortile esterno dove a novembre 2016  il cantante Emis Killa (sopra) ha incontrato i detenuti del settore "giovani adulti".

I detenuti possono uscire all'aria accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria. Quando si esce, gli occhi, dalla penombra, faticano ad abituarsi alla luce accecante: allora si ricorda dove si è, in centro a Milano. Il cortile è piccolo, ci sono due canestri e sulle pareti ci sono alcuni murales fatti dai detenuti. Il caldo è soffocante e si può credere che non tutti d'estate vogliano uscire. Si sente il rumore del traffico. Dice un agente, che sorveglia il braccio dei giovani adulti: “Non bisogna sottovalutare quanto facciano bene ai detenuti i rumori che vengono dalla strada, clacson, caos, traffico,  auto e voci di persone, suoni che le pareti spesse del carcere non permettono di sentire. E' il bello di San Vittore questo: le altre carceri milanesi sono in aperta campagna. A San Vittore sono tutti in attesa di giudizio, il fuori non è un ricordo lontano, ma molto molto fresco. Alcuni escono solo per respirare un po' di vita… quella che avevano e che per un po' non avranno più”.

DNA in carcere

Prima di uscire, ai detenuti condannati per una serie di reati ben precisi è stato disposto il prelievo del DNA. Lo si fa da alcuni mesi, dal giugno 2016, dopo l'entrata in vigore del Regolamento attuativo della legge istitutiva della Banca dati per facilitare l’identificazione degli autori dei delitti e delle persone scomparse. La raccolta tiene conto – secondo quanto detta la legge – «del rispetto della dignità, del decoro e della riservatezza di chi viene sottoposto» e quindi sulle buste dei prelievi non ci sono nomi, ma solo targhette che saranno lette a Roma da un apposito computer. Dice un agente, mostrando un kit per il prelievo: “Facciamo noi i prelievi. Abbiamo seguito un corso e siamo diventati bravi”. Peccato, però, che tutti i Dna prelevati finora non siano stati ancora richiesti da Roma, dove si trova il cervellone centrale che dovrebbe esaminarli e archiviarli.

Burn out

La direttrice Gloria Manzelli con il comandante Manuela Federico.
La direttrice Gloria Manzelli con il comandante Manuela Federico.

Se entrare in carcere per tre ore è un'esperienza sconvolgente, si può credere che chi ci lavora ogni giorno sia a rischio di "burn out", ossia di scoppiare, di non reggere la tensione del proprio lavoro, sempre a contatto con criminali, in un ambiente comunque vecchio e poco luminoso. Il comandante  degli agenti Manuela Federico ammette che questo rischio c'è, ma che gli agenti sono sempre più bravi e preparati. Racconta uno di loro, addetto al settore più difficile, quello dei protetti: "Più che i corsi serve l'esperienza. Sono quindici anni che faccio questo lavoro e farlo a San Vittore è meglio: sei in città, non in campagna, dove fatichi ad arrivare e impieghi ore a tornare nel traffico. Odiamo quando sui giornali veniamo chiamati guardie o secondini, perché sminuisce il nostro lavoro. Sorvegliare i detenuti è la parte più facile del nostro lavoro, la più difficile è conoscerli, cogliere i loro stati d'animo, far loro da psicologi, assegnarli alle celle giuste, dove non sorgano problemi con gli altri detenuti, dove riescano a condividere la loro traumatica esperienza. Se loro sono tranquilli, il braccio è tranquillo e il nostro lavoro è migliore. Questo mestiere non ce lo insegna nessuno. Sarebbe bello che ci fosse riconosciuto. E poi bisogna staccare: prendere il buono che questo lavoro ti dà e quando si esce dimenticare tutto. La famiglia ci aiuta!". A volte, però, le buone intenzioni non bastano. Ha dichiarato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE: "Negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 50 poliziotti e dal 2000 ad oggi più di 110.  I poliziotti continuano a suicidarsi, l’Amministrazione Penitenziaria non mette in campo alcuna concreta iniziativa per contrastare il disagio lavorativo e dare un sostegno a chi è in prima linea nelle carceri”.

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