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Regolarizzazione migranti: “Serve alle aziende agricole e, soprattutto, serve alla società”

A Vittoria, nel Ragusano, si trova il più grande mercato ortofrutticolo del Meridione d’Italia e si concentra una parte consistente della produzione orticola di tutta la Sicilia. Migliaia di braccianti agricoli sono migranti irregolari che vivono le difficoltà di riuscire a ottenere un contratto di lavoro poiché, appunto, non hanno un permesso di soggiorno valido. Sul tavolo del governo c’è la possibilità di una regolarizzazione attesa sia dagli imprenditori sia da chi nelle serre lavora da anni.
A cura di Luisa Santangelo
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È un circolo vizioso: non puoi avere un permesso di soggiorno se non hai un contratto, e se non hai un permesso di soggiorno non puoi avere un contratto. Mentre il cane si morde la coda, i migranti irregolari che lavorano nelle campagne ingrossano le file di chi ha fame. Migliaia solo in Sicilia, nel Ragusano: la zona di Vittoria concentra buona parte della produzione orticola dell'intera Isola e a raccogliere pomodori, zucchine e melanzane, nelle serre in cui d'estate si superano i 50 gradi, ci sono tantissimi cittadini stranieri. Prima erano tunisini, poi sono diventati rumeni, adesso ci sono moltissimi giovani provenienti dall'Africa subsahariana. E se per i neocomunitari le cose sono più semplici, non può dirsi altrettanto di chi viene da un altro continente.

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Il governo nazionale discute in questi giorni della regolarizzazione dei migranti irregolari. La ministra Teresa Bellanova ha messo sul tavolo le proprie dimissioni qualora la questione non si risolvesse in fretta con un permesso di soggiorno almeno temporaneo anche per i braccianti agricoli. Ma le trattative sono in corso e c'è chi non può aspettare. Mubarak ha 27 anni, viene dal Benin, è in Italia da quattro anni. Hanno provato a costringerlo ad arruolarsi e lui è scappato. Quando è arrivato nel nostro Paese una malattia gli impediva di sentire bene e, dopo un periodo in comunità, è andato a vivere a Vittoria stringendo un permesso per protezione umanitaria. Che poi è stato abolito con il decreto sicurezza firmato dall'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini.

"Ho lavorato per un anno con un contratto in regola – dice il giovane a Fanpage.it – Poi è scaduto e non me l'hanno rinnovato. Nel frattempo, era scaduto il mio permesso e la questura ha bisogno di un contratto di lavoro per farmi restare qui". Il coronavirus, però, ha complicato le cose. E trovare un impiego è sempre più difficile. "Esisteva un collocamento informale – spiega Giuseppe Scifo, segretario generale della Cgil di Ragusa – Non era caporalato, era un modo di incontrare domanda e offerta. Chi aveva bisogno che qualcuno lavorasse nelle serre sapeva di trovare braccianti disponibili in certe strade e certe piazze". Uno scenario impossibile ai tempi del Covid-19.

"Ho lavorato in nero – continua Mubarak – Ma adesso non posso più farlo. Le serre sono lontane, non ci si può arrivare in bicicletta. Il mio datore di lavoro ci veniva a prendere in macchina, però ora non possiamo più stare in tanti là dentro". Così anche questa opportunità, che garantiva la sussistenza, è sfumata. Nel suo appartamento, dove vivono in sei, solo uno lavora regolarmente. Gli altri vivono alla giornata. "Molti migranti irregolari che prima riuscivano in qualche modo a vivere adesso sono parte della emergenza povertà che sta esplodendo", continua Scifo.

Eppure di lavoratori qualificati ci sarebbe bisogno. Lo sa bene Gianni Polizzi, direttore del Distretto orticolo Sud Est Sicilia, che da settimane chiede alle istituzioni la regolarizzazione: "Abbiamo scritto diverse lettere – racconta – Abbiamo bisogno di manodopera e vogliamo essere messi nelle condizioni che sia regolare. Significherebbe sconfiggere il caporalato e il lavoro nero, tracciare queste persone, sapere dove vivono, dove lavorano e per conto di chi". Significherebbe, in altri termini, fare emergere migliaia di persone che, senza alcuna tutela, lavorano per riempire i mercati ortofrutticoli di tutt'Italia. E da lì i supermercati. "La regolarizzazione non serve solo alle aziende, serve a migliorare le condizioni della nostra società", conclude Scifo.

"Io in questo Paese ci sono cresciuto – afferma un uomo di 57 anni, di origini tunisine – Avevo 19 anni quando sono arrivato". Parla un italiano che è più dialetto ragusano e nella sua storia, sostiene, ci sono almeno 15 anni di contributi regolarmente versati. "Però ho sbagliato: mio fratello si è ammalato e io sono andato in Tunisia tante volte per occuparmi di lui. Poi è morto, aveva un tumore, ma i miei viaggi non avevano fatto bene ai miei documenti. Per due anni non sono stato messo in regola a lavoro e, così, il mio percorso per il permesso di soggiorno non è servito a niente". E adesso? "Adesso sono clandestino. Lavoro a giornata e vivo in una casa abbandonata. Ma che devo fare? Devo andare a rubare? No. Io lavoro".

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