Reggio Emilia, da Peppone alla ‘ndrangheta
In principio era la “patria” di Peppone e don Camillo poi è diventata la terra dei cutresi, ovvero dei cittadini calabresi emigrati da Cutro, in provincia di Crotone, e insediatisi, ormai da anni, a Brescello. Nel paese della “bassa”, così è definita quella parte della provincia di Reggio Emilia che costeggia il Po, si è formata una vera e proprio colonia di donne, uomini e bambini provenienti dalla costa ionica. Tra questi migranti interni c’è anche la famiglia Grande Aracri alla quale appartiene Nicolino, noto boss della ndrangheta. Il fratello, Francesco vive nel paese dell’epopea di Guareschi insieme ad altri compaesani, tutti pienamente integrati al punto da risiedere in un quartiere chiamato Cutrello, felice sintesi della nuova identità: la radice è quella di Cutro, la desinenza è un omaggio alla terra che li ha accolti.
La domenica se andate in piazza a Brescello potete ascoltare distintamente il dialetto palatizzato della provincia di Crotone, quella sub specie di arabo italiano pieno di consonanti e vocali aspirate. Una volta sono stato a Brescello. Era il 2013 e si presentava il libro del giudice Giuseppe Gennari sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta a Milano. Stavo seduto nella platea ad ascoltare un giornalista che intervistava il magistrato e al mio fianco c’erano il professore Antonio Nicaso e il dottor Nicola Gratteri (allora sostituto procuratore del Tribunale di Reggio Calabria).
Tutto sembra svolgersi in apparente calma, in pochi sapevano che la presenza del giudice Gratteri a Brescello aveva messo in agitazione alcuni cutresi (quelli non onesti). Intorno al cinema/teatro giravano e rigiravano tre auto che, di tanto in tanto, sostavano e poi ripartivano. Sembrava la scena di uno di quei film in cui gli squali cominciano a vorticare intorno alla barca prima di tentare di rovesciarla con un assalto. A metà serata Gratteri, per motivi di sicurezza, fu portato via dalla scorta e come per incanto gli squali s’inabissarono nel buio da cui erano venuti, nascondendosi nella nebbia della “bassa”.
Sono tornato quest’anno, una settimana fa, in quella stessa zona della provincia di Reggio Emilia. Non sono andato a Brescello ma a Guastalla per un incontro su “Reti clientelari e infiltrazioni mafiose”. La sindaca, Camilla Verona, sta provando a sensibilizzare la cittadinanza sul radicamento delle mafie in quel territorio, a partire dall’inchiesta Aemilia che ha svelato gli affari della ndrangheta nel cuore della pianura padana. I cittadini presenti erano davvero pochi e per la maggior parte si trattava di amministratori comunali interessati a discutere l’argomento. La gente, quella che vive la quotidianità affannosa della vita normale, non era interessata, anche se i due bar vicini al luogo della discussione erano stracolmi di ragazzi e persone mature in preda al rituale dell’happy hour.
Mi sono reso conto, anche incontrando altri sindaci e amministratori pubblici, che non sanno proprio come comportarsi. Sono come pugili suonati con la vista annebbiata che, barcollando, tirano pugni senza riuscire a colpire l’avversario. Tentano di difendersi ricordando che i loro padri hanno fatto la Resistenza, che hanno una coscienza civica secolare, che hanno costruito il benessere senza dimenticare gli ultimi, ma nel momento stesso in cui lo dicono si accorgono dell’insufficienza della prova. Le parole cadono nel vuoto di una stanza semideserta. Attenzione non si tratta di omertà ma di semplice e puro disinteresse: le mafie, come sempre accade al principio della loro comparsa, sono sentite come qualcosa di distante che non interferisce nella quotidianità. Una percezione che le rafforza e le consente di inerirsi fin dentro i gangli vitali della società e quando arriva la consapevolezza di ciò è ormai troppo tardi.
Come è stato possibile che in quella parte d’Italia modello di efficienza amministrativa e di ricchezza economica il capitale sociale si sia degenerato consentendo l’ingresso di forze criminali? Come è stato possibile che la provincia famosa al mondo per il consenso elettorale attribuito al più grande partito comunista d’occidente si sia trasformata in una terra di conquista degli ndranghetisti?
Il discorso sarebbe lungo e ci vorrebbero più voci a confronto. Provo a dire la mia. La fine dell’era ideologica con l’arrivo del neoliberismo e della globalizzazione ha destrutturato nel profondo l’identità di politici e amministratori emiliani. Finché il mondo era diviso in due sfere la diversità comunista aveva protetto i comuni dell’Italia rossa dalle penetrazioni mafiose. Ciò non significa che non si sviluppassero anche in quel territorio reti clientelari, ma le clientele erano tutte all’interno di un sistema di potere difeso dal cordone sanitario dell’ideologia comunista in un paese del Patto Atlantico. Ciò significava che gli appalti, i bandi, i concorsi, le assunzioni avvenivano tutte seguendo la logica del rafforzamento del partito attraverso il controllo del governo locale.
L’appalto, l’assunzione, la concessione erano strumenti di crescita del Pci e poi della società civile collegata al partito. Essere comunisti in Emilia significava essere diversi ma anche benestanti, una ricchezza che fino alla caduta del muro di Berlino non interessava alle mafie perché vedevano nel Pci un antagonista ideologico. E poi c’erano migliaia di comuni governati dalla Dc in cui era “facile” entrare in gioco attraverso reti clientelari aperte e tese a catturare consenso, e cedere ricchezza, in maniera trasversale anche grazie ad una diffusa corruzione.
Piombati nell’era post ideologica gli amministratori emiliani sono diventi uguali agli altri. Non hanno più un’identità chiusa ed alternativa di riferimento. Se aggiungiamo che la modifica della legge elettorale e la riforma degli enti locali (negli anni Novanta), con grandi poteri di programmazione attribuiti ai sindaci e di gestione assegnati ai dirigenti della Pubblica amministrazione, hanno dato il via libera alle liberalizzazioni selvagge dei servizi locali (un processo in cui sono protagonisti proprio i politici post comunisti), con l’ingresso di capitali privati ormai fuori dal controllo selettivo della cappa ideologica, il quadro si completa.
L’Emilia aveva bisogno di questa scossa, meglio lo scioglimento di un comune che un morto ammazzato. Ma non basta. È necessario ricostruire e agire su nuove basi sapendo che le mafie non sono un’altra cosa ma un pezzo importante della società civile nazionale che ambisce violentemente al controllo dell’economia come strumento di potere politico.