Raffineria Lukoil in Sicilia, con embargo al petrolio russo “a rischio diecimila lavoratori”
La descrivono come una catena di luci tutte connesse: se si spegne la prima, via via si spengono anche le altre. A Priolo Gargallo, anima del polo petrolchimico di Siracusa, uno dei più vasti d'Europa, la raffineria di petrolio più grande di tutte parla russo. È la Isab-Lukoil, il colosso del circondario: due sedi collegate da un oleodotto, una banchina per l'attracco diretto delle petroliere, chilometri di tubi dentro ai quali passa, secondo i dati dei sindacati, il 22 per cento del greggio che alimenta l'Italia intera. Quasi un quarto dei derivati che danno energia alla nazione vengono da questo enorme stabilimento il cui destino è intrecciato a doppio filo con quello di Mosca. E mentre l'Unione Europea decide sull'embargo al petrolio russo, la provincia siracusana già trema: se chiude Lukoil anche il resto del petrolchimico sarà costretto a chiudere baracca. E, con esso, le possibilità di vita di diecimila lavoratori siciliani.
L'inizio della crisi
La crisi per Lukoil è cominciata con l'inizio della guerra. "Prima compravamo il petrolio sul mercato, quello russo era al massimo il 15 per cento del totale", spiega a Fanpage.it Fiorenzo Amato, segretario della Filctem Cgil di Siracusa. Ma il meccanismo con il quale il greggio veniva acquistato era quello dell'anticipazione di fatturazione erogata dalle banche. L'inizio dell'invasione dell'Ucraina da parte della Russia e le prime sanzioni finanziare per destabilizzare il governo di Vladimir Putin si sono riflesse, da subito, su questo meccanismo. "Nessuno ha più fatto credito a Lukoil", spiega Roberto Alosi, segretario generale della Camera del lavoro aretusea. "L'unico ente rimasto a farci credito è Mosca".
Così il colosso che si muoveva sul mercato globale acquistando il greggio da tutti, all'improvviso, si è trovato a secco. E il cento per cento di quello che entra, adesso, è russo. Le petroliere che attraccano al molo portano bandiere di diversi Paesi, ma il loro contenuto parla una sola lingua. Ed è quella più invisa alla comunità internazionale.
Lo stabilimento non è russo
La raffineria Isab-Lukoil, è bene precisarlo, non è direttamente russa. Isab è il nome della società italiana di proprietà, al cento per cento delle quote, della Lukoil. Che la controlla tramite la società svizzera Litasco, esclusivista della diffusione di Lukoil nel mondo. Formalmente, quindi, lo stabilimento non è destinatario di alcuna ritorsione economica internazionale per via della guerra in Ucraina.
Le nuove sanzioni
Il sesto pacchetto di sanzioni dell'Unione Europea nei confronti della Russia non è ancora realtà, ma potrebbe esserlo presto. E quanto previsto parla chiaro: l'embargo al petrolio russo, graduale, fino a uno stop totale delle forniture entro il 2023. Uno stillicidio necessario ai Paesi Ue per trovare il modo di organizzarsi in mancanza dell'oro nero di Putin. Il prezzo che pagherà la Sicilia, però, rischia di essere doppio. "Oltre al danno la beffa", dicono sottovoce alcuni lavoratori Lukoil fuori dallo stabilimento, appena finito il turno di lavoro.
Il danno è quello che ha subito questa intera porzione di Sicilia occidentale per fare spazio all'industria della chimica e del petrolio: da una e dall'altra parte del polo, più ce ne si allontana più il mare e la bellezza del litorale sono diventati fonte di reddito. Ad Augusta, Priolo Gargallo e Melilli, invece, i residenti fanno i conti con l'inquinamento ambientale e le ciminiere che puntellano l'orizzonte sul mare solcato dalle petroliere.
"Quando, 70 anni fa, si è deciso di fare qui il polo petrolchimico più grande d'Europa si è deciso di sfruttare questo territorio. E adesso, dopo 70 anni, che pensano di fare? Di chiudere tutte cose, salutare e andare via?", domanda Sebastiano Corsico, da 38 anni lavoratore del polo petrolchimico, uno dei diecimila dell'indotto Lukoil. La beffa è là: "In cambio del lavoro, abbiamo lasciato tutto: la natura, la salute, l'aria pulita. E adesso ce lo vogliono togliere", dice un altro, che però preferisce rimanere anonimo. "Uno stabilimento come questo è la certezza di questo territorio e della provincia tutta", aggiunge Salvo D'Amore, lavoratore Isab-Lukoil da metà della sua vita. "Quando sono entrato, pensavo che ci sarei rimasto fino alla pensione".
Il dramma occupazionale
Adesso, invece, questa certezza vacilla. Nuccio Calanni, anche lui operaio nella raffineria, certezze invece non ne ha: una moglie di Melilli, tanti anni a lavorare all'estero, da appena qualche mese era rientrato nella sua Sicilia sperando di restarci. "Pare, invece, che dovremo fare di nuovo le valigie perché è troppo difficile lavorare in questa terra bellissima". Damiano Lorefice, vent'anni appena compiuti, originario di Canicattini Bagni, non ha nemmeno fatto in tempo a finire di pagare la scuola guida: "Lavoro qui da tre mesi, come assistente saldatore, e già è tutto a rischio".
Il 50 per cento del Pil della provincia
"Chiudere questo stabilimento significa rischiare di sgretolare l'hub industriale e distruggere il 50 per cento del pil della provincia di Siracusa – conclude Roberto Alosi – Faremo di tutto affinché il governo nazionale si occupi finalmente del polo petrolchimico e delle sue prospettive". Le uniche di lungo periodo, però, hanno a che fare con il totale cambiamento della vocazione dell'intera area: "Basta con tutti quei bla bla bla, non vogliamo più chiacchiere", attacca Corsico, in una versione made in Sicily del famoso discorso di Greta Thunberg. "È il momento di agire finalmente per la riconversione energetica".