Se c’è una cosa che gli ultimi due anni ci hanno insegnato, è l’inaffidabilità delle predizioni e dei buoni propositi, sia a livello personale che politico. Il rischio è quello di finire come Boris Johnson, che il 2 gennaio 2020, forte della vittoria con la Brexit, pubblicava su Twitter una foto non con uno, ma con ben due pollici alzati e la didascalia: “Questo sarà un anno fantastico per la Gran Bretagna”. Poi è arrivata la pandemia, la crisi economica e le conseguenze nefaste della fuoriuscita dall’Unione europea e il post è volato dritto nella categoria “invecchiato male”.
Per quanto quindi sia difficile avere certezze in questo particolare periodo storico, l’anno che è appena cominciato si apre con una decisione non rimandabile e una delle partite politiche più difficili degli ultimi anni. L’elezione di un nuovo, o una nuova, presidente della Repubblica si preannuncia come un percorso diviso e divisivo. La novità è che accanto a nomi più o meno presentabili ce n’è uno mai visto prima: “Una Donna”, che sembra fare Una di nome e Donna di cognome, visto quanto è indefinita l’identità di questa candidata femminile. Il fatto che “Una Donna” compaia spesso accanto a persone designate con nome e cognome esprime un problema politico che ha radici profonde, e che di certo non può essere risolto nel giro di un anno. Dei dodici presidenti che il nostro Paese ha avuto finora, tutti hanno ricoperto un incarico di rilievo: quattro presidenti del Consiglio, sei della Camera, uno del Senato, un giudice della Corte Costituzionale e nove ministri. Le donne che possono vantare un simile profilo istituzionale in Italia si contano a malapena sulle dita di una mano.
Posto che “Una Donna” a capo dello Stato non è affatto garanzia di progresso per tutte le altre donne di questo Paese, specialmente se venisse eletta una figura che non si è mai spesa su questi temi, sarebbe anche ora di avere una presidente dopo 76 anni di storia repubblicana. Ma è molto probabile che a prevalere saranno ancora una volta giochi partitici e rivalità interne. E anche se questa fosse l’ennesima fumata nera per le donne in nome delle ormai antonomastiche “ben altre priorità”, la speranza è che “Una Donna” ci consegni una lezione per il futuro: se le donne non si trovano, non è perché siano meno capaci o meno meritevoli, ma è perché ci troviamo di fronte a un’assenza di tipo strutturale. Come possiamo individuare nomi di prestigio, se il prestigio delle donne nella politica italiana è sempre stato ostacolato, quando non mal tollerato?
Il problema della presenza femminile passata e futura non si limita alla sola politica, ma riguarda più in generale tutta la società italiana e in particolare il lavoro. Alla fine del 2020, il dato dei 99mila posti di lavoro persi dalle donne su 101mila indignava tutti. Ma poco è stato fatto per rimediare a questa emorragia e le misure adottate per riportare i livelli di occupazione a quelli pre-pandemia hanno penalizzato ancora una volta quella femminile: dei 390mila posti di lavoro creati lo scorso anno, solo 118mila sono stati occupati da una donna. Questo accade perché l’occupazione femminile, tra le più basse in Europa, ha bisogno di misure ad hoc per sostenersi, come gli asili nido, una rete di welfare sostenibile e iniziative che favoriscano la conciliazione tra vita e lavoro. Senza questi interventi, che devono diventare strutturali, non si può pensare a un aumento dell’occupazione femminile. Purtroppo né il Piano nazionale di ripresa e resilienza né la Legge di bilancio hanno saputo far fronte a questi bisogni. Nel primo caso, come analizzato dalle esperte del think tank Period, gli interventi mirati alle donne rappresentano solo l’1,6% del totale, per circa 3 miliardi di euro. Anche altri interventi del Piano potrebbero avere risvolti positivi per le donne, ma tutto dipende dalla sua attuazione. Per quanto riguarda la legge di bilancio, invece, si è persa una grande occasione per portare il congedo di paternità a 90 giorni, avvicinandosi al resto dell’Europa. Dopo il grande entusiasmo iniziale sulla proposta, il governo non ha stanziato i fondi necessari (circa 1,5 miliardi di euro) e l’Italia rimarrà con 10 giorni di congedo obbligatorio per i nuovi padri, un lasso di tempo che non ha di certo il potere di cambiare le cose per chi vuole costruire una nuova famiglia.
Ma accanto alle occasioni perse, il 2022 sarà anche l’anno di grandi battaglie sociali. Enrico Letta e Alessandro Zan hanno annunciato che la lotta per una legge sull’omolesbobitransfobia non è finita e chissà se questo tema che ha tanto infervorato l’opinione pubblica non possa unirsi ai referendum sulla cannabis, sull’eutanasia e sulla giustizia. Il successo strabiliante delle varie raccolte firme, agevolate anche dalla possibilità di firma digitale, è il segno che la cittadinanza italiana ha voglia e bisogno di esprimersi direttamente sui temi che più vengono ignorati dalla politica ufficiale. Questa esigenza, ripensando a come si è svolta la discussione sulla legge Zan, purtroppo sembra motivata anche da una sempre maggiore forza nello scenario politico europeo di conservatori e neofondamentalisti, che a loro vantaggio hanno alleanze e coalizioni internazionali sempre più forti.
Se augurarsi un anno fantastico come ha fatto Boris Johnson non sembra portare molta fortuna, per il 2022 possiamo almeno sperare in un anno in cui si prova a immaginare un’alternativa, che non sia più un semplice ritorno alla normalità. Alternativa di cui il nostro Paese sembra avere disperatamente bisogno.