"Nel bene o nel male, purché se ne parli" scriveva Oscar Wilde. Sembra questa la filosofia di molte recenti campagne di comunicazione, da Melegatti a Italo, passando per Barilla. Nella comunicazione istituzionale e commerciale, però, non sempre questo è un approccio vincente. Nell'epoca in cui i social network la fanno da padrone, gli effetti incontrollati e incontrollabili che possono scaturire da una campagna poco pensata e postata con leggerezza su Facebook possono essere devastanti per l'immagine del prodotto che si vorrebbe sponsorizzare o dell'idea che si vorrebbe propagandare. E' il caso del famigerato slogan "Trivella tua sorella", ideato dall'agenzia beShaped, che ha scatenato le ire dei commentatori e perfino del comitato promotore del referendum del 17 aprile, investito suo malgrado dalle polemiche. Una campagna non solo priva di senso, ma che dimostra soprattutto il fatto che ancora oggi, nel 2016, i cosiddetti "creativi" siano convinti che per veicolare un qualsiasi messaggio pubblicitario sia necessario ipersessualizzare l'immagine della donna sempre e comunque, poco importa se questo potrebbe offenderne la dignità.
Breve excursus: il 9 marzo, l'agenzia pubblica sui suoi canali social l'immagine di una donna stilizzata "montata" da una trivella, corredata dallo slogan "Se l'ami, non farle del male #Trivellatuasorella Il 17 aprile vota sì". Manco a dirlo, subito è scattata l'indignazione. Lo slogan, inizialmente erroneamente accostato e quindi attribuito al comitato promotore del referendum "No trivelle", ha provocato un vero e proprio terremoto mediatico, molti gli esponenti dei comitati No Triv che su Facebook hanno pubblicato post in cui dichiaravano che per colpa di questa campagna "così sessista e lesiva della dignità delle donne", stavano addirittura pensando di non partecipare più al voto del 17 aprile. Insomma, l'agenzia beShaped per via di un post alla "purché se ne parli" ha rischiato di creare una sorta di incidente diplomatico a Sinistra, toccando una delle tematiche più care ai tanti attivisti, la battaglia contro il sessismo. Infatti, nonostante il comitato No Triv nazionale avesse cercato di dissociarsi subito dalla campagna, la polemica e l'indignazione avevano già preso il sopravvento, sui social come sui media nazionali tradizionali.
La beShaped, ieri, ben 5 giorni dopo la pubblicazione dell'infausta campagna, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un lungo post, spiegando i motivi che l'hanno portata a creare quel tipo di campagna:
"Posto che non fosse certamente questo il messaggio che intendevamo lanciare, ci scusiamo se con troppa leggerezza abbiamo trascurato di valutare come sarebbe stata accolta la suddetta immagine. Nostro intento era quello di associare lo stupro che si vuole fare dei nostri mari, per motivi legati esclusivamente agli interessi economici di pochi, alla violenza che viene usata contro il corpo di una donna. "Se vuoi stuprare il nostro mare, cui siamo legati per cultura, tradizione, amore viscerale, perché allora non fai la stessa cosa a tua sorella, intesa come una persona alla quale sei intimamente legato, alla quale non faresti mai del male?". Questo era il senso per noi dell'operazione".
La spiegazione non è affatto piaciuta e l'agenzia è stata investita nuovamente dalle polemiche, polemiche talmente roventi che l'hanno portata a dichiarare di aver licenziato il social media manager che aveva causato il grosso guaio, sostenendo che avesse pubblicato l'immagine senza il permesso di nessuno. Licenziamento annunciato postando un commento scritto tutto in maiuscolo, in risposta a qualsiasi commento pubblicato degli utenti, peraltro. Insomma, non esattamente un comportamento da esperti della comunicazione digitale, anzi nemmeno uno stagista al primo giorno di lavoro commetterebbe mai errori così marchiani. Leggendo poi il famigerato comunicato postato nel pomeriggio di ieri, l'agenzia in realtà sembrava sostenere con convinzione per quali motivi avesse deciso di riprendere quella vecchia campagna (risalente al 2013, secondo alcune ricerche effettuate su Twitter).
Insomma, la beShaped ha commesso un epic fail comunicativo dietro l'altro, attirandosi una valanga di pubblicità negativa inarrestabile. Uno scivolone social importante, ma di certo non è l'unica agenzia di comunicazione a puntare sul sessismo per vendere un prodotto o un'idea. Volendo citare degli esempi, non c'è che l'imbarazzo della scelta, soprattutto in campo commerciale: Ryanair, per esempio, nel 2012 uscì con una campagna che definire sessista è un eufemismo. Lo slogan, tutto un programma: "Tariffe bollenti e hostess piccanti", accompagnato dalla fotografia di una modella in intimo con l'espressione un po' ammiccante. Tutto per vendere dei voli a prezzi stracciati. In quel caso, in Inghilterra, intervenne addirittura la Asa, l'autorità per la pubblicità britannica, bloccando la campagna in seguito alle proteste di 11.000 cittadini inglesi.
Sicuramente questo tipo di comunicazione si può tranquillamente definire volgare oltre che maschilista, ma che dire allora di Dolce e Gabbana, che arrivò a pubblicizzare la propria collezione con un'immagine che ritraeva un simil-stupro, con la modella stesa e bloccata a terra da un uomo e altri 4 aitanti giovani intenti a guardare la scena? Ma questi esempi sono solamente due tra quelli presenti nel mare magnum italiano, il punto della questione in realtà è un altro: il sesso e il sessismo vendono, c'è poco da fare. Probabilmente il puntare su questo tipo di stereotipo fa sì che il messaggio della campagna venga più facilmente veicolato al più ampio target possibile. In poche parole, data la quantità di pubblicità sulla falsariga di Ryanair, Dolce e Gabbana, Trivella tua sorella et similia, sembra quasi che i pubblicitari italiani cerchino di dare al proprio pubblico ciò che in fondo apprezza e si aspetta. Forse non è il tipo di pubblicità ad essere sbagliato, ma l'idea che gli italiani hanno della donna: un corpo senz'anima, che serve solamente ad attirare sguardi lascivi. Un oggetto, il cui unico scopo è il vendersi per vendere.