Scena: San Luca, cortile di un palazzotto a più piani, il sole è già alto e i carabinieri tengono stretto Giuseppe Giorgi, detto ‘u capra, arrestato a casa sua dopo sei ore di perquisizione. Il letto ancora caldo e appena sfatto a casa della figlia ha fatto capire alle forze dell'ordine di essere molto vicini all'obiettivo e dopo sei ore di perquisizione (da cui sono saltati fuori 157 mila euro in contanti divisi in buste e nascosti dietro una parete) e così alla fine Giorgio, latitante da 23 anni, viene stanato in un bunker murato. Un miserabile topo dentro la sua tana murata in un condominio attentamente sorvegliato da una manciata di squallide vedette: chissà se qualcuno ha mai pensato a quanto siano diversi i boss di casa nostra rispetto alle latitanze tutte potere e lustrini che ci racconta certa filmografia.
L'hanno preso, Giuseppe Giorgi, trascinandolo sotto gli occhi degli uomini che lo attendevano nel cortile della sua abitazione mentre veniva portato in carcere. E loro, quei servi della ‘ndrangheta, hanno voluto tributargli tutti gli onori del caso finché uno di loro non si è avvicinato al boss baciandogli le mani di fronte agli uomini delle forze dell'ordine e alla cittadinanza. E dentro quel gesto, che a qualcuno superficialmente potrebbe apparire solo pittoresco, c'è tutto il codice mafioso e c'è tutta la cultura che concima il malaffare.
Baciare la mano, innanzitutto, significa inginocchiarsi. La sottomissione al boss nel momento in cui lo Stato si illude di avere interrotto l'esercizio del suo potere è la garanzia che i suoi equilibri, i suoi affari, le sue amicizie e il suo volere rimarranno intatti nonostante la giustizia. Sotto gli occhi di tutti si è consumato il patto di mantenimento del ruolo di boss di Giuseppe Giorgi al di là delle manette, del processo e della condanna che verrà. L'antistato ha officiato la sua messa laica usando i carabinieri come chierichetti.
La presenza dei carabinieri e delle telecamere, appunto. Quel baciamano è stato eseguito con gesti così larghi proprio perché consapevole di avvenire "in pubblico" e "in faccia" alle forze dell'ordine: il messaggio non è tanto per il boss (che sa bene di non avere nulla da temere sulla fedeltà dei suoi accoliti) ma soprattutto è uno sfregio conclamato contro lo Stato e la Giustizia perché non pensino di potere essere nulla di più di un superabile inconveniente che ostacola ma non scardina la ‘ndrangheta sul territorio. Forse vale la pena ricordare che proprio San Luca è quello stesso comune in cui le elezioni sono state "rimandate" per mancanza di candidati. Dove lo Stato non riesce a espletare il proprio compito fino in fondo (a impiantare legalità oltre che ad arrestare gli illegali) i boss diventano istituzione per affidabilità e protezione.
Siamo un Paese in cui oltre alla mafia pullulano gli episodi di "favoreggiamento culturale mafioso" che rischiano di essere il concime essenziale del potere mafioso. Eppure in un Paese che vuole davvero disarticolare il pensiero mafioso il nome di quel servo inginocchiato davanti al suo putrido re dovrebbe essere conosciuto, isolato e attaccato. C'è l'infrazione della legge e c'è anche l'infrangere la dignità di una nazione che ha perso per mano della mafia i suoi uomini migliori: quel servo è il parroco di un sistema marcio che dovremmo urlare come insopportabile.
Quell'uomo è la virgola del boss che non possiamo e non vogliamo permetterci. O no?