Sei anni di Università. Notti in bianco sui libri, attacchi di panico prima di un appello, mani sudate a un colloquio, "corse" in bagno per lo stress. Appunti e dispense, caffè acidi e pizze surgelate, sveglie all’alba e rientri per cena. Sei anni per imparare la differenza tra i metodi D’Hondt, Nohlen e Sainte-Lague – che ancora me li sogno la notte – o per capire come il processo di “agenda setting” influenzi un gruppo di pressione, partito o amministrazione tutta. Per innamorarsi della "sociologia della devianza", di Durkheim prima e di Bauman dopo. Per odiare una "curva di indifferenza" e "un vincolo di bilancio". Sei anni di Scienze Politiche, insomma. I miei ultimi sei anni.
In mezzo a tutto questo, oltre all’acqua sotto i ponti, è passata qualche proposta istituzionale anche importante. “Non è il momento”, mi sono sempre risposto. “Prima le basi, poi il lavoro e l’impegno! Ogni cosa a suo tempo”. Agire per il bene della collettività non si improvvisa con del sentimentalismo spicciolo. La politica è una cosa seria, è il GPS col quale ci muoviamo nel mondo: servono esperienza e capacità per manovrarlo. Occorre sapere dove e come mettere le mani per evitare pasticci interminabili. È una responsabilità, non una rivalsa personale.
Poi però leggo la candidatura dell’ennesima persona disabile. Nessuna preparazione, nessuna esperienza, forse neanche in un consiglio comunale o al circolino dietro casa. Nessuna laurea specifica, solo un personaggio acchiappa voti. “Personaggio”, sì, perché questo siamo, me compreso (sottolineo). In un’ecosistema dove la bravura si misura in like e non coi fatti, siamo finiti con lo sminuire anche l’impegno civile.
Un programma buttato giù con qualche check-list retorica e slogan buonista: ideali generici senza una proposta concreta o un progetto strutturato. Ma soprattutto, capacità di visione nel lungo periodo completamente assente, per non parlare del registro col quale si comunica la propria identità personale, sociale e istituzionale: sempre lo stesso tono, approssimativo. Amatoriale, che in questo caso non è un valore aggiunto, sinonimo di veracità.
Smettiamola con l’utilizzare la disabilità per farsi largo tra la folla e raccogliere consensi. Smettiamola di crederci tuttologi dal basso della nostra carrozzina o dall’alto del nostro impianto cocleare. Basta con l'essere complici di un meccanismo distorto che ci vede come il cagnolino da sfruttare per rimorchiare al parco. Ma soprattutto, è l’ora di finirla col ritenere che i disabili siano necessariamente delle persone capaci, perché la scusa dell’ “esperienza personale” e “della vita difficile” non basta. Non abbiamo nulla in più da insegnare rispetto a chi si è fatto il mazzo: sui libri e sul campo. Nel suo campo.
Siamo persone, nulla più e nulla meno. Un ignorante resterà pur sempre un ignorante, e una legge 104 non lo salverà dalla propria incompetenza. Non siamo tutti psicologi, avvocati o ingegneri. Fareste mai curare un tumore da un medico con la licenza media? Credo proprio di no. E se quello con la licenzia media fosse in carrozzina? Non cambierebbe un fico secco. Ecco, allo stesso modo, non siamo tutti politici: lasciamo certe strade a chi ha i mezzi migliori per percorrerle. L'attivismo potete farlo là fuori, in qualunque momento, ogni giorno. Mentre generalizzare resterà sempre il miglior modo per ingrassare i pregiudizi. Salvateci, ma soprattutto salviamoci, da noi stessi.