Provenzano, è morto il braccio ma ancora non sappiamo chi fosse la mente
È morto Bernardo Provenzano. La notizia non sorprende nessuno viste le condizioni critiche del boss che da tempo era gravemente malato. È morto Provenzano e qualcuno tirerà un lunghissimo sospiro di sollievo poiché il "capo dei capi" dopo Riina è stato l'uomo perfetto per incarnare un periodo storico che è tutto ombre: lui, il boss, ha taciuto tenendo fede alla regola d'onore di Cosa Nostra e ai patti rimasti sotto traccia. È morto Provenzano e ora sarà ancora più facile provare a convincerci che ha fatto tutto da solo, che è stato illuminato nella gestione delle famiglie mafiose e che abbiamo perso un genio del crimine.
Binnu u' Tratturi lo chiamavano i picciotti fin dagli anni '60. Il trattore, il suo soprannome, per evocare la violenza con cui falcidiava i nemici che provavano ad opporsi alla crescita criminale sua e di suo compare Toto u'curtu Riina: i due villani di Corleone che partiti dall'abigeato e dalla macellazione clandestina sono arrivati in cima alla cupola mafiosa. Bernardo Provenzano l'uomo che con i suoi quarantatré anni di latitanza s' fatto beffe dello Stato. Oppure ne è stato complice.
Alla mia generazione hanno insegnato che Totò Riina e Bernardo Provenzano sono stati i protagonisti della guerra di mafia tra corleonesi e i palermitani, poi responsabili della stagione delle stragi e infine che Provenzano, dopo l'arresto di Riina, sia stato il reggente di Cosa Nostra. Hanno continuato a dirci, insomma, che Provenzano e Riina fossero in grado di tenere sotto scacco l'Italia. Da soli. E noi, a dire il vero, ci abbiamo creduto per un po': quando Riina venne arrestato nel 1993 mostrandoci tutta la sua insignificante statura intellettuale la narrazione epica ci spinse a credere che Riina fosse la bestia e Provenzano il cervello. L'insabbiamento della strategia mafiosa che all'improvviso decide di posare alle armi e dedicarsi ai soldi (dopo le stragi del '92 e del '93) era, così diceva il mito, merito dell'intelligenza di Zu Binnu, della sua capacità d'analisi e della sua mitezza. Avrebbe dovuto essere un diavolo di genio, Provenzano, secondo la narrazione ufficiale.
Quando viene arrestato qualcosa però non torna: anche lui, come molti boss, appare tutto ingrippato nella casupola smerdolata in cui si nascondeva, circondato da ricotte e piatti scaldati, fieno e stracci. Tra gli oggetti ritrovati anche un santino elettorale di Totò Cuffaro (tra le diverse marie vergini), i suoi pizzini con cui comunicava all'esterno e le musicassette de Il Padrino e dei Puffi. Era l'11 aprile 2006. Provenzano si era "salvato" diverse volte dalla cattura grazie alla provvidenziale fuga di notizie di qualche uomo infedele delle forze dell'ordine da latitante è riuscito perfino a farsi una scappata a Marsiglia per essere operato alla prostata. Una delle latitanze più agili degli ultimi anni, dice qualcuno, e sarebbe facile pensare che forse la protezione di cui ha goduto non fosse assicurata solo dalla mafia ma anche da pezzi dello Stato. Provenzano, del resto, è uno degli elementi apicali della presunta trattativa tra Stato e mafia su cui indaga da anni la Procura di Palermo.
Eppure il Provenzano che abbiamo visto in questi ultimi anni, quel vecchietto sofferente che ha tentato il suicidio (dicono) con un sacchetto di Parma, l'antico boss che racconta al figlio durante un colloquio in carcere di essere stato "picchiato" e il Provenzano ormai immobilizzato dalla malattia è molto diverso dall'epica che lo accompagna. Anche la lettura dei suoi pizzini (battuti a macchina nel suo covo durante la latitanza e poi minuziosamente ripiegati per essere pronti a mimetizzarsi nelle tasche di qualche fedele "postino") rivela un quadro diverso dal mito: Provenzano ha avuto il merito di rendere la mafia invisibile ma difficilmente avrebbe potuto essere "il cervello". Forse è stato un braccio più mite del feroce Riina, sì, ma continua a mancarci la mente.
E la sua morte ora rende la ricerca ancora più complicata.