La Banca d’Italia “cestina il Def” come sintetizza l’economista e blogger Mario Seminerio, segnalando come dati e previsioni contenute nel primo Bollettino Statistico di Via Nazionale, diffuso oggi, lascino prevedere “un ulteriore biennio di carestia, o meglio di “stabilizzazione” che disegna una lettera L, non certo una V”. Meglio mettersi l’animo in pace insomma: con buona pace degli auspici del governo, la domanda interna resta “lettera morta” e affidarsi solo all’export (che per di più è nuovamente in stallo, con una frenata in novembre delle esportazioni, -1,9%, e ancor più dell’inport, -2,2%, che dovrebbe far riflettere) non basterà a produrre “una ripresa che sia qualcosa più che semplicemente statistica”.
I numeri, del resto, non sembrano dare adito a dubbi: Bankitalia si attende un Pil reale in crescita dello 0,7% quest’anno (contro il +1% previsto dal Def) e dell’1,7% l’anno venturo (Def: +1,5%), mentre l’inflazione, sempre secondo le stime di Banca d’Italia, dovrebbe anche nel 2014 confermarsi all’1% (dall’1,1% medio del 2013, terminato peraltro con un indice tendenziale in crescita dello 0,7% a dicembre) per poi risalire nel 2015 all’1,5%. Se queste ipotesi (sostanzialmente allineate a quelle dei principali previsori mondiali) si rivelassero corrette, ovvero se non interverranno provvidenziali e per ora non prevedibili “esogene” di natura economica o politica, sperare di ottenere un Pil nominale in crescita del 3% quest’anno è “un’ipotesi pressochè fantascientifica” per Seminerio.
Il che significa due cose: anzitutto che la possibilità di vedere il rapporto deficit/Pil nuovamente sopra il 3% cresce considerevolmente, secondo che la speranza di veder calare la pressione fiscale come ribadito a più riprese da Letta e Saccomanni è altrettanto “marziana”, visto che come già detto occorrerebbe almeno una crescita del 3%-4% solo per compensare il peso degli interessi che l’Italia paga sul proprio debito pubblico. Uno sfondamento della soglia del 3% di deficit/Pil, per non superare la quale già nell’anno appena trascorso il governo italiano si è prodotto in uno sconcertante balletto di provvedimenti, dichiarazioni e precipitose correzioni “in corso d’opera”, potrebbe per di più indurre l’esecutivo guidato da Enrico Letta a varare l’ennesima “manovra correttiva”, che andrebbe a soffocare ancor più la già debole ripresa e a scoraggiare nuovi investimenti delle imprese in Italia.
Quali effetti ciò possa avere sull’occupazione è facile capirlo, se già ora Bankitalia parla di una disoccupazione che nel 2014 dovrebbe salire al 12,8% (dal 12,7% corrente) e nel 2015 toccare il 12,9%. La più classica delle “jobless recovery”, insomma, in cui sui giornali troverete titoli cubitali ogni qual volta un indicatore economico segnerà un rialzo frazionale, senza che questo apra minimamente alcuna prospettiva di lavoro per chi il lavoro non ce l’ha, come molti giovani e molte donne, o l’ha perso. Cosa servirebbe per far cambiare il quadro che se non a un inferno assomiglia certamente più a un purgatorio che ad una qualche sia pur vaga definizione di paradiso?
Al di là delle riforme di cui più volte si è detto, se si guarda nuovamente alla Spagna, si nota come la disoccupazione sia salita ogni qual volta il sistema bancario è entrato in crisi esplodendo nell’ultimo biennio con l’impennata di sofferenze emerse nei bilanci di un sistema pesantemente esposto alla crisi del comparto immobiliare. Occorrerebbe dunque ridare credito al sistema per evitare di fare una fine analoga. Il guaio è che Italia e Spagna si somigliano più di quanto non si voglia ammettere ufficialmente, con un piccolo non trascurabile particolare: che essendo pieni di immobili i portafogli di banche e assicurazioni, i prezzi degli stessi in Italia non sono ancora crollati, anche per dar tempo di cedere il possibile ai prezzi meno penalizzati possibile.
Una strategia, quella di far adeguare lentamente i prezzi degli immobili, che è parallela a quella della pulizia di bilancio “graduale” che le banche stanno da tempo attuando, ad esempio ristrutturando di volta in volta il debito di questo o quel “grande cliente” (mentre chiedono ai “piccoli” di rientrare dalle proprie esposizioni). Una strategia, anche, che è stata resa possibile anche dalle amorevoli cure della Bce che prestando denaro a basso costo e chiedendo di ridurre gli asset a rischio ha indotto le banche a concentrarsi su operazioni di "cary trade" che vedono l'impiego della liquidità non in nuovi prestiti ma per sottoscrivere titoli di debito e lucrare la differenza di tasso d'interesse.
In più alle banche medesime lo stato, prima coi Tremonti bond, poi coi Monti bond, ha dato (sia pure a caro prezzo) una limitata boccata d’ossigeno e prova ora (con l’intervento sempre più frequente di un soggetto semi-pubblico come Cassa depositi e prestiti) di darne una più sostanziosa partecipando ad aumenti di capitale o rilevando ulteriori asset “non più strategici” per le banche medesime (o per altri gruppi industriali a partecipazione pubblica come Eni o Enel) ma ancora “strategici” per il mondo politico italiano.
Mondo politico che nel frattempo si affanna, si fa per dire, per cercare la quadra tra una legge elettorale, una riforma dello “ius soli” e qualche polemica sull’opportunità di concedere o meno lo status di “famiglia” alle unioni omosessuali. Manca solo l’ennesima polemica sull’utilizzo delle cellule staminali e sulla sacralità dell’acqua pubblica e poi il teatrino italiano si sarà ricomposto perfettamente. Nel frattempo però l’Italia (in particolare con le sue piccole e medie imprese) è scivolata di qualche ulteriore gradino verso il basso: inutile poi chiedersi perché i mercati stiano dando fiducia alla Spagna più che al Bel Paese.