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Opinioni

Veli islamici, contro la collezione Dolce&Gabbana l’ira di chi non capisce la seduzione

Le critiche e le questioni attorno al velo islamico, a questo punto della cronaca politica e internazionale, stanno diventando un vero misuratore di intelligenza e di provincialismo: smettete di voler liberare le donne musulmane. Sanno farlo da sole.
A cura di Sabina Ambrogi
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La coppia di stilisti Dolce & Gabbana ha appena presentato la collezione Abaya (dal nome delle lunghe tuniche portate da alcune donne islamiche) che consiste in tuniche, cui si accompagnano scarpe molto sexy e elegantissime, ma anche una serie di hijab, ovvero i fazzoletti che molte musulmane indossano e che lasciano il volto scoperto. Il tutto estremamente glamour e accessoriato. La notizia dei due stilisti, che ricordiamo per ben altri scivoloni, è circolata con stupore al limite del grottesco come se il grande sottinteso fosse “guardate un po': prima le volevano tutte sempre sexy e ora invece coprono il capo delle donne perché siamo sottomessi all'Islam”. Innanzitutto gli stilisti, come chiunque faccia business, si occupa di desiderio, di denaro e non di diritti. Non solo. Come Fanpage.it ha spesso documentato i principali partner commerciali e acquirenti del lusso made in Italy sono i paesi del Golfo: Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain e Qatar. E questo a dispetto di ciò che si sa di questi paesi, dei rapporti col terrorismo, etc.

Dolce & Gabbana non sono affatto i primi a lanciare sul mercato abaya e hijab. Nel 2009 aveva già fatto una sfilata memorabile, durante la settimana della moda di Parigi, Galliano, direttore artistico per la maison Dior, e poi Nina Ricci e le italiane Blue Marine e Alberta Ferretti. Sono quelli gli indumenti che chiede quel tipo di  acquirente. Perciò quando si parla di “sottomissione” all'Islam bisognerebbe includere anche la sottomissione al denaro di buona parte di paesi a maggioranza musulmana, assai poco liberali. Un'abaya di una maison di moda europea costa fino a 8000 euro. Nel 2010 ci pensava Harrod's a vendere alle donne saudite quei loro capi di abbigliamento da poter associare alle scarpe di Gucci e alle borse di Hermes. Dolce & Gabbana sono dunque arrivati nel settore del lusso buoni ultimi. Nel main stream della moda, poi,  ci aveva già pensato H&M, il colosso dell'abbigliamento svedese che  ha fiutato l'affare, integrando il velo islamico nelle sue collezioni.

Premesso ciò, il punto è che si dovrebbe smettere – alcune femministe in particolare, animate da insopportabile spirito colonialista (della serie "ora vi spieghiamo noi, come si diventa libere"), – di continuare a credere che il velo (spesso anche confuso col burqa o niqab, cioè il velo integrale per il quale si apre tutt'altro discorso) sia una sorta di costrizione per le musulmane.

Il velo può essere per le giovani musulmane tanto seduttivo e personale quanto per un' “occidentale” portare la minigonna. L'Institute for Social Research della University of Michigan ha indagato le preferenze di sette paesi a maggioranza musulmana:Turchia, Egitto,Tunisia, Libano, Pakistan, Arabia Saudita e Iraq che hanno tutte espresso per la maggior parte la preferenza dell'hijab. La rete abbonda di blog sulla moda hijab e di fashion blogger agguerritissime e informatissime. Non c'è nulla di sottomesso a nessuno. Le modelle indossano tacchi 12 sottili, sandali e trasparenze. La seduzione non è la stessa in tutte le parti del pianeta. Va inoltre aggiunto che per le più giovani in particolare, dopo le Primavere Arabe, c'è stata una corsa a indossare il fazzoletto, magari anche su pantaloni aderenti. I dittatori rovesciati dalle rivoluzioni, come Ben Ali in Tunisia, avevano imposto o almeno avevano indotto a reprimere ogni forma di esteriorizzazione della religione, per mantenere rapporti sereni con l'occidente e dittatoriali in casa propria: portare l'hijab in molti casi è per molte semmai rivoluzionario e una forma di libertà dalle pretese occidentali.

Cosa rappresenti il velo islamico dunque è questione complessa e varia a seconda dei paesi e delle implicazioni sociali economiche e politiche. È una separazione esteriore estetica cui ne corrisponde una interiore fatta di reticenza, attesa, e nelle sue infinite declinazioni, anche di seduzione e erotismo. In un'approssimativa lista di significati, il velo rappresenta la separazione tra la sfera pubblica e quella privata, per alcune donne un'opportunità di partecipare alla vita pubblica, e per molte la propria espressione di femminilità passa sicuramente attraverso di questo. Al di là delle molteplici implicazioni e significati, pezzi di società e di modernità si raccontano e si rappresentano attraverso questo pezzo di stoffa. In Iran, a Teheran, le case di moda si sbizzarriscono in modelli in seta, coloratissimi, decorati, con e senza frange. Mai come ora l'hijab fa tendenza e diventa lo spazio dove tutto è permesso.

Per questo la punta di ridicolo è stata raggiunta da coloro che hanno criticato Deborah Serracchiani in viaggio istituzionale in Iran, in cui ha indossato il velo. L'Iran è uno di quei paesi in cui, per le donne, il velo è ancora codice vestimentario obbligatorio. E il  primo della lista delle cascata di  assurdità e proprio un suo compagno di partito, il senatore Pd Lodovico Sonego che ha detto:

La Presidente Serracchiani col velo. Immagine dolorosa, a maggior ragione dopo i fatti di Colonia. Ho sempre considerato un errore la prassi del capo coperto, anche in occasione di visite al sommo Pontefice.

E ancora una volta non si sa cosa c'entrino i fatti di Colonia.  Andrebbe chiesto però alle femministe tedesche che in questo momento stanno ricordando quante molestie (inascoltate) subiscono normalmente e quanto strano sia, che solo ora la destra (anche quella misogina, illiberale e razzista) stia cavalcando “la libertà delle donne”.

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Autrice televisiva, saggista, traduttrice. In Italia, oltre a Fanpage.it, collabora con Espresso.it. e Micromega.it. In Francia, per il portale francese Rue89.com e TV5 Monde. Esperta di media, comunicazione politica e rappresentazione di genere all'interno dei media, è stata consigliera di comunicazione di Emma Bonino quando era ministra delle politiche comunitarie. In particolare, per Red Tv ha ideato, scritto e condotto “Women in Red” 13 puntate sulle donne nei media. Per Donzelli editore ha pubblicato il saggio “Mamma” e per Rizzoli ha curato le voci della canzone napoletana per Il Grande Dizionario della canzone italiana. E' una delle autrici del programma tv "Splendor suoni e visioni" su Iris- Mediaset.
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