Peste Suina Africana, oltre 500 cacciatori in campo: “Catastrofe se arriva in Lombardia o Emilia”
Daniela Pastorino, cacciatrice ed esperta veterinaria, è il referente di Federcaccia Piemonte nei rapporti con le squadre che sono al lavoro per individuare le carcasse degli animali, che vanno trattate con molta attenzione perché è proprio nella carne morta dei cinghiali che il virus della Peste Suina Africana resta vivo più a lungo: sebbene muoia oltre i 70°, vive oltre 300 giorni nei salumi. Non è nocivo per gli esseri umani che possono ingerirlo senza nessun problema e, negli oltre 50 anni in cui questa malattia è stata studiata, non ha mai fatto il salto di specie.
I cacciatori volontari, che partecipano alle battute di ricerca, lo fanno seguendo un metodo statistico, perlustrando celle da un chilometro quadrato non contigue, in modo da coprire più territorio il più velocemente possibile. A novembre i cinghiali si riproducono e intorno a metà febbraio, fine marzo cominceranno a nascere nuovi cinghiali, probabilmente infetti. Questa delle ricerche è soltanto la prima delle fasi della vera e propria guerra che si sta per scatenare: "Dobbiamo fare in fretta, è una corsa contro il tempo – spiega Daniela Pastorino – se arriva in Lombardia o in Emilia è una catastrofe".
Catastrofe non è una parola esagerata, perché nei 114 comuni interdetti perché zona contaminata dal virus, è fatto divieto l'export di carne di maiale oltre i confini nazionali. Cosa succederebbe se si verificassero dei casi di Peste Suina Africana (PSA) in Emilia e Lombardia, dove sono presenti allevamenti da milioni di maiali? Una catastrofe economica che può durare anni.
Come fare a combattere questa epidemia? Non c'è niente da decidere: è già tutto scritto in una direttiva dell'unione europea che prevede una fase di contenimento e ricerca, quella nella quale siamo attualmente e che consiste nel bloccare ogni attività sul territorio infetto, quindi divieto di caccia, di raccolta funghi e tartufi, di trekking, di pesca; anche ai cani viene fatto divieto d'accesso perché potrebbero portarsi dietro, appiccicato al pelo o alle zampe, terreno e fango toccati dai cinghiali infetti e potenzialmente potrebbero trasmettere l'infezione agli allevamenti della zona. Contestualmente a questa fase di ricerca delle carcasse vanno sfruttate le barriere naturali e pseudonaturali come fiumi e soprattutto autostrade per piazzare delle reti per impedire il passaggio dei cinghiali dalla zona infetta fino alla pianura padana.
L'atto finale, la decisione ultima su cosa fare una volta finita la fase di contenimento, spetta al Ministero della Salute ma è già scritta nella direttiva SANTE/7113/2015, e prevede l'eradicamento totale della malattia dal territorio, quindi l'abbattimento di tutti i cinghiali all'interno della zona di infezione, con un successivo e progressivo ripopolamento dopo qualche tempo. Un abbattimento massivo del genere, alcune associazioni parlano di oltre 50mila cinghiali da sopprimere, non è una cosa che possono fare i cacciatori volontari da soli. Una fonte regionale spiega che un'operazione del genere, dal punto di vista logistico, non è sostenibile dai cacciatori, volontari o meno, è una cosa che deve fare lo Stato e con grande forza e decisione, perché il tempo è un fattore chiave.
"Non possiamo permetterci di convivere con questa malattia – spiega Daniela Pastorino, intercettando l'umore sia dei cacciatori che degli esperti regionali che stanno lavorando al caso – dobbiamo fare presto perché il tempo sta per scadere"