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Cambiamenti climatici

Perché siamo così vulnerabili al negazionismo climatico

Nonostante il cambiamento climatico sta cambiando radicalmente il mondo che abitiamo, e nonostante il consenso scientifico sia unanime sul tema, il negazionismo climatico continua a inquinare il dibattito pubblico. E al pari del negazionismo o le narrazioni distorte sul Covid-19, i media hanno un’enorme responsabilità in come scelgono di trattare l’argomento.
A cura di Fabio Deotto
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Per molto tempo ho creduto che il negazionismo climatico fosse un problema del passato, un morbo quasi interamente debellato dalla mole ormai schiacciante di prove della crisi climatica in cui ci troviamo. Del resto è quello che suggeriscono diversi studi e sondaggi: la quantità di persone che non crede al cambiamento climatico o alla sua origine antropica è in costante calo, in compenso una percentuale sempre più consistente di persone identifica la lotta al riscaldamento globale come una priorità.

Insomma, ero convinto che i negazionisti climatici fossero ormai una specie in via d’estinzione, che resistessero solo quei tre o quattro che vengono invitati nei talk show a inquinare il dibattito su come affrontare la crisi climatica.

Poi lo scorso weekend ho postato un tweet sull’opportunità di non invitare negazionisti nelle trasmissioni televisive, e mi sono ritrovato investito da un’ondata di insulti e calunnie. C’era chi mi dava del fascista, chi dell’eco-nazista, chi mi accusava di essere anti-scientifico, e scomodava Galileo, Popper e Kant, chi di essere seguace di Soros, qualcuno mi ha dato del violento per aver utilizzato il termine “negazionista”, altri sono andati a spulciarsi la mia biografia per poter prendere meglio la mira, e d’un tratto sono diventato “lo scrittore di Vimercate che ha bisogno della compiacenza dei poteri forti”. E vi risparmio gli insulti irriferibili.

Quando il polverone si è depositato, e qualche decina di troll è finita nella cartella dei bloccati, ho scoperto che lo stesso fuoco di fila era stato riservato ad altri giornalisti e scienziati che sono intervenuti sulla questione. Ero confuso: significa che il negazionismo è ancora vivo e vegeto? Oppure che questa minoranza risicata riesce a ottenere una visibilità molto superiore al suo peso reale?

A quanto pare, entrambe le cose.

Di cosa parliamo quando parliamo di negazionismo climatico

Sgombriamo il tavolo da un po’ di dubbi. Innanzitutto: il termine “negazionista climatico” è comunemente utilizzato nella letteratura accademica e scientifica per indicare chi nega, rifiuta o esprime dubbi non circostanziati riguardo al consenso scientifico sul cambiamento climatico, compreso chi suggerisce che non sia causato dall'uomo, o che stia già producendo effetti sulla natura e sulla società umane.

Ora, una delle argomentazioni preferite dei negazionisti climatici è che nel mondo ci siano tanti scienziati convinti che il cambiamento climatico non sia colpa dell’essere umano o che non sia così pericoloso. In realtà, dati alla mano, sono pochissimi, e per la stragrande maggioranza sono scienziati che non si occupano di clima. Tra i climatologi, invece, la percentuale di persone che credono nella responsabilità antropica della crisi climatica sfiora l’unanimità: stando a uno studio condotto di recente dalla Cornell University a partire da 90.000 paper scientifici, il consenso sulla questione climatica raggruppa il 99,9% dei climatologi. Dieci anni fa questa percentuale si assestava al 97%, il che significa che anche i più scettici tra gli studiosi del clima, di fronte alla crescente mole di evidenze, hanno abbandonato le loro riserve.

Tra le persone comuni, invece, la percentuale di negazionismo è più alta, ma è comunque compresa tra il 5% e l’8%. Tra questi ci sono sicuramente anche degli scienziati, ma quasi nessuno ha dedicato la propria carriera allo studio del clima; il che non è cosa da poco. Pensiamoci, in qualsiasi altra situazione tendiamo ad affidarci solo al parere di chi è esperto in una materia: non ci rivolgeremmo mai a un biologo per fare una perizia geologica, non chiederemmo mai a un economista di deliberare su una questione giuridica, e nemmeno ci affideremmo a un ortopedico per curare un problema oncologico, eppure continuiamo a invitare alle trasmissioni sulla crisi climatica negazionisti con una laurea in geologia, o in astronomia, con il risultato di far passare l’idea che sulla crisi climatica la comunità scientifica sia divisa, quando a conti fatti il consenso è paragonabile a quello sull’evoluzionismo o sulla tettonica delle placche.

Ora che abbiamo messo in chiaro queste cose, è il caso di affrontare due questioni fondamentali. La prima: perché esistono tante persone, anche tra chi crede nell’origine antropica del cambiamento climatico, convinte che tra gli scienziati non ci sia consenso? La seconda: perché, nonostante tutte le evidenze, il negazionismo riesce ancora a fare così presa?

Una minoranza rumorosa

Un’indagine condotta nel 2018 dal Center for Climate Change Communication della George Mason University ha rivelato che, nonostante esista un consenso pressoché unanime riguardo all’incidenza umana sul riscaldamento globale, l’opinione pubblica ritiene che, in media, solo il 67% degli scienziati climatici concordi sull’origine antropica.

Questa discrepanza si chiama “consensus gap” ed è uno degli ostacoli più insidiosi all’azione climatica. Diversi studi hanno dimostrato che le persone tendono ad essere più inclini a prendere a cuore la questione ambientale, e in particolare a supportare le iniziative di riduzione delle emissioni, se sono al corrente della sostanziale unanimità degli scienziati climatici sulla questione.

È naturalmente un problema di informazione: questo scarto viene mantenuto tale da quanti impiegano buona parte delle loro giornate a diffondere falsità, si tratti di estemporanei leoni da tastiera o di habitué del negazionismo online. E siccome è molto più facile sporcare che ripulire, basta poco per seminare dubbi che richiedono tempo e argomentazioni per essere dissipati. È una lotta impari tra chi liquida la questione climatica con slogan pseudoscientifici (“il clima è sempre cambiato”, “è colpa del Sole”, “il riscaldamento globale fa bene alla natura”), e chi per confutarli deve necessariamente addentrarsi nella complessità della questione, fornire dati e nozioni scientifiche di base, portare evidenze e correggere informazioni sbagliate; il tutto per poi  magari essere tacciato di connivenza con non meglio specificati “poteri forti”.

Ma se un gruppo risicato di negazionisti riesce a fare tanto rumore, e a seminare tanti dubbi, non è solo colpa della tigna di chi mitraglia fake news sui social: è almeno dagli anni ’80 che le industrie del settore fossile dedicano fior di milioni a campagne di disinformazione (per chi volesse approfondire, consiglio i libri di Michael E. Mann e Stella Levantesi). Una delle manovre più spudorate fu il Global Warming Petiton Project, che nel 1998 raccolse 31.000 firme di “scienziati” che affermavano come l’attività umana non stesse compromettendo il clima. Ma era sufficiente dare una rapida scorsa all’elenco per rendersi conto che di quelle 31.000 persone molte non avevano alcun titolo di studi scientifico, alcune nemmeno erano persone reali; ma soprattutto: gli scienziati climatici erano meno dello 0,1%.

Una situazione simile si verifica ancora oggi, per rendersene conto è sufficiente dare un’occhiata alla dichiarazione pubblicata lo scorso anno da Clintel, una fondazione che da tempo si impegna a diffondere dubbi sull’emergenza climatica.

Una risposta confortante

Qualche mese fa, prima di sapere che aspetto avesse una shitstorm di Twitter, avevo pubblicato su queste pagine un pezzo su come rispondere ai negazionisti climatici, in cui mi soffermavo sulla necessità di ricordare come, tra coloro che diffondono falsità sul clima, ci sia anche chi in quelle falsità ci crede sinceramente, e dunque è la prima vittima del negazionismo.

Superata la shitstorm negazionista rimango dello stesso avviso. Le persone che non credono alla responsabilità umana del cambiamento climatico, o che hanno dubbi sulla sua pericolosità o persino sulla sua esistenza, non sono necessariamente ignoranti o in malafede, e la cosa peggiore che possiamo fare è liquidarli come tali. Spesso, in realtà, sono persone che rincorrono una forma falsata di speranza, quella a cui ci si aggrappa quando si decide di non accettare un'evidenza scomoda, quando ci si sente disarmati e impotenti.

Gli studi che indagano la psicologia del negazionismo climatico rivelano che questa particolare negazione è associata a un orientamento politico che pende a destra o verso il centro liberale, a una predisposizione alla conservazione dello status-quo, nonché all’evitamento di emozioni negative. Questo significa che, statisticamente, il negazionista climatico è una persona tendenzialmente conservatrice, restia a immaginare un cambiamento radicale, e che percepisce un abbandono dell’attuale sistema socio-economico come foriero di sofferenza.

Non dovremmo mai dimenticare che la crisi climatica è un fenomeno che minaccia ogni settore della nostra vita personale, economica e sociale. Accettarne l’esistenza significa accettare la possibilità che il mondo in cui siamo cresciuti, e in cui abbiamo riposto le nostre aspettative di felicità e rassicurazione, stia cambiando in modo irreversibile. Per chi è al corrente della situazione emergenziale in cui ci troviamo esistono due strade possibili: una conduce a un mondo sempre meno ospitale e sempre più iniquo, l’altra conduce a un mondo più equo e sostenibile, ma radicalmente diverso da quello in cui abbiamo vissuto per generazioni.

Non è facile accettare questa biforcazione, ed è comprensibile che alcune persone non vedano l’ora di scoprire che non c’è alcun bivio da prendere, che si tratti in definitiva di un problema fasullo, architettato ad arte. È una risposta semplice quanto confortante: è normale che faccia presa.

La portata infettiva del negazionismo

Bisogna poi tenere conto anche di un altro aspetto della questione: i nostri cervelli non sono equipaggiati per comprendere in modo chiaro e immediato una minaccia complessa come la crisi climatica. Noi esseri umani, come tutti gli animali, siamo il prodotto di un percorso evolutivo, questo significa le nostre caratteristiche fisiche e psicologiche sono quelle che hanno aiutato i nostri antenati a sopravvivere in un mondo molto diverso da questo. È per questo che fatichiamo a sviluppare una paura viscerale per una minaccia come la crisi climatica, ed è per questo che il nostro sguardo sul mondo è ostacolato da una serie di limiti cognitivi: ad esempio la tendenza a credere che la crisi climatica colpirà altre persone in un altro luogo prima di noi, o a pensare che il mondo in cui siamo cresciuti non possa cambiare in modo radicale.

“In una certa misura, siamo tutti potenzialmente negazionisti climatici” ha dichiarato Belinda Xie, ricercatrice dell’Università di Sidney, parlando della mancata coincidenza tra il riconoscere l’esistenza del problema climatico e attivarsi in prima persona per affrontarlo “Il che non significa che gli esseri umani siano necessariamente cattivi o egoisti: ci sono molti fattori esterni in gioco che difficilmente possiamo controllare a livello individuale, ad esempio le informazioni che riceviamo dai media.”

Considerando quanto siamo vulnerabili a narrazioni false, semplificate e confortanti riguardo la questione climatica, diventa ancora più chiaro come l’informazione debba farsi carico della responsabilità di arginare questa deriva. A questo proposito, imporsi di non invitare negazionisti climatici a dibattiti e incontri che si prefiggono di trovare soluzioni per affrontare la crisi climatica non significa imporre una censura, bensì assicurarsi che quel dibattito possa poggiare su basi reali, e possa portarci a fare dei passi avanti verso soluzioni effettive al problema.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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