Marzo non è ancora finito e il Po è già in secca come se fosse agosto. Per rendersene conto basta fare un giro nella Bassa Lodigiana, dove in alcuni punti il greto è talmente secco che è possibile attraversare il Grande Fiume a piedi. Al Nord ormai non si vede pioggia da più di tre mesi. Questo, unito a una temperatura superiore di oltre 2 gradi alla media stagionale e alla mancanza di neve in alta quota, sta trasformando l’inverno del 2022 in uno dei più siccitosi e problematici della storia del nostro paese.
E non vale solo per il Po: il Trebbia e il Reno sono ai minimi storici dal 1972, l’Adda e il Ticino sono a un quarto della loro normale portata. Una situazione problematica per una lunga serie di motivi. Innanzitutto, una portata così scarsa in questo periodo ha ricadute drammatiche sull’agricoltura: la mancanza di piogge così a ridosso del periodo di semina (che per molti ortaggi comincia ad aprile), renderà necessario ricorrere a irrigazione di emergenza, che comporta il prelievo di acqua dai già striminziti fiumi o da altri bacini, e un consumo di energia ulteriore che in questo periodo rischia di raggiungere prezzi proibitivi.
A peggiorare la situazione, nel Delta del Po, c’è il problema del “cuneo salino”: ogni volta che la portata del fiume scende infatti al di sotto dei 500 metri cubi al secondo, c’è il rischio che l’acqua salata proveniente dall’Adriatico risalga il corso del Po, a volte spingendosi anche decine di chilometri nell’entroterra, rendendo non potabilizzabili ampi tratti di fiume e innescando un principio di desertificazione nei terreni limitrofi.
Ma i problemi si estendono ben oltre il comparto agricolo, basti pensare al fatto che negli invasi artificiali sfruttati dal settore idroelettrico il livello dell’acqua è dimezzato rispetto alla media degli ultimi 15 anni, il che ha portato alcune centrali a interrompere l’attività, mentre altre riescono a produrre solo una minima percentuale dell’energia solitamente generata in questo periodo dell’anno. Per non parlare degli effetti disastrosi che questa prolungata siccità sta producendo a livello di habitat, comportando enormi rischi per la fauna e la flora degli ambienti fluviali.
Il rapporto IPCC, pubblicato a fine febbraio ha rivelato come già oggi 4 miliardi di persone vivano in condizioni di grave scarsità d’acqua; parliamo di più della metà della popolazione mondiale che per almeno un mese all’anno non dispone di acqua sufficiente a soddisfare i bisogni elementari. Abbiamo accolto questi con la solita schiera di fronti aggrottate, ci siamo indignati a scoprire quante persone ogni anno bevono acqua da falde contaminate (2 miliardi), e poi siamo tornati a vivere la vita di sempre, dove l’acqua sembra essere un elemento inesauribile a cui possiamo attingere con estrema facilità aprendo un rubinetto. Quello che sta succedendo oggi in Italia, però, ci mostra come una risorsa che siamo abituati a dare per scontata stia diventando sempre più scarsa e sempre più contesa, e come dovremo abituarci a trattarla come un bene di scarsità.
Acqua: la risorsa invisibile che usiamo per tutto
Quanti litri d’acqua ci vogliono per fare una tazzina di caffè? Potrebbe sembrare un indovinello scappato da un romanzo di Boris Vian, in realtà è una domanda del tutto sensata, considerando che la risposta giusta è: 132 litri. Questo valore corrisponde alla cosiddetta “impronta idrica”, sarebbe a dire tutta l’acqua dolce necessaria a coltivare, processare, trasportare e servire 125 millilitri di caffè. Quello del caffè, naturalmente, è solo un esempio, e nemmeno il più sconvolgente. Per ottenere un chilo di pane, per dire, servono all’incirca 1600 litri d’acqua, per un chilo di formaggio 3200, per un chilo di carne di pollo 4300, mentre per uno di carne bovina addirittura 15.000. Ma forse l’alimento di cui più sottovalutiamo l’impronta idrica è il cioccolato, che richiede la bellezza di 17.000 litri per ogni chilogrammo.
Se spostiamo lo sguardo al di fuori del comparto agroalimentare, la situazione non è tanto più rosea. Pensiamo anche solo al fatto che per ottenere un paio di jeans e una maglietta di cotone servano almeno 10.000 litri d’acqua, una quantità paragonabile a quella necessaria a produrre uno smartphone, o un paio di scarpe di cuoio.
Per rendersi conto di quanta acqua venga consumata ogni giorno per garantire quello che consideriamo uno stile di vita “normale” è utile acquisire il concetto di “acqua virtuale”, termine utilizzato per indicare tutta l’acqua necessaria per produrre e trasportare i vari beni di consumo. Ma per quanto utili, i concetti di “impronta idrica” e “acqua virtuale”, vanno impiegati con le dovute misure, perché altrimenti si rischia di appiattire su un unico parametro quello che in realtà è un problema complesso. Se è vero, per dire, che una tazzina di caffè richiede 132 litri d’acqua, è anche vero che questa impronta idrica è molto meno problematica se la coltivazione avviene in zone umide piuttosto che aride.
Un modo per restituire in parte la complessità del consumo idrico consiste nel rendere noto, come fanno alcuni studi, le diversi componenti dell’impronta idrica: l’acqua proveniente da bacini idrici superficiali o sotterranei che viene consumata per evaporazione, tramite l’irrigazione, o incorporata in prodotti non organici (acqua blu); quella derivante dalle precipitazioni che viene dispersa per evotraspirazione o incorporata dalle piante (acqua verde), e quella necessaria a diluire gli agenti inquinanti, derivanti da acque reflue urbane, scarichi industriali e infiltrazioni minerarie, per ripristinare uno standard qualitativo idrico definito (acqua grigia).
A fronte di una situazione di scarsità idrica crescente intervenire su tutti i fronti della filiera produttiva per ottimizzare il consumo idrico sarà importante, certo, ma tutt’altro che sufficiente. Ci sarà piuttosto bisogno di cambiare il nostro approccio nella gestione dell’acqua, un approccio che oggi comporta prima di tutto un enorme spreco.
Anche l’acqua si può riciclare
Una delle scene più memorabili di quel mastodontico flop cinematografico che fu Waterworld, ritraeva Kevin Costner, in un mondo sommerso dalle acque oceaniche, intento a ricavare acqua potabile dalla sua stessa urina. Quella che all’epoca era una trovata grossolana per una scena d’impatto, oggi a conti fatti risulta essere tutt’altro che fantascientifica. Nel 2003, appena 8 anni dopo l’uscita di Waterworld, Singapore ha lanciato NEWater, un progetto che prevede un massiccio riutilizzo delle acque di scarico. Attraverso una seria di elaborati passaggi, che comprendono microfiltrazione, osmosi inversa e irraggiamento ultravioletto, dalle acque fognarie viene ricavata acqua potabile che può essere reimmessa nel sistema cittadino. Con questo sistema di riciclo idrico, oggi Singapore ha messo la propria popolazione al riparo da una scarsità idrica che già negli anni ’70 aveva costretto le amministrazioni a contingentare l’utilizzo domestico. Il 40% dell’acqua utilizzata nel paese è riciclata, ma l’obiettivo è portare questa percentuale al 55% entro il 2060.
Il caso di Singapore dimostra come il riutilizzo delle acque reflue possa rivelarsi decisivo in condizioni di scarsità idrica, eppure questa pratica è ancora marginale. Nella maggior parte delle nazioni che già oggi lottano contro desertificazione e siccità, il grosso degli investimenti di questo tipo viene riversato in nuovi impianti di desalinizzazione. Il che non stupisce più di tanto: in paesi dove un elevato consumo idrico si abbina a un’elevata estensione costiera, come la California, l’Australia e, soprattutto, l’Arabia Saudita, la possibilità di rendere utilizzabile l’acqua marina sembra la soluzione più ovvia. Peccato sia anche incredibilmente costosa ed energivora, oltre a creare un’enorme quantità di scarti salini che poi finiscono in mare, creando non pochi problemi per la fauna acquatica.
Sopperire a una scarsità idrica sempre più aggravata dal riscaldamento globale facendo impennare ulteriormente le emissioni è l’ennesimo esempio di come spesso si privilegi il breve termine, ignorando le conseguenze sul medio e sul lungo termine. Il riciclo, per contro, ha un costo e un impatto minore, soprattutto quando, come nel caso di Singapore, viene associato a una rete fognaria imponente.
Italia: il paese più ricco d’acqua è anche quello che la sfrutta peggio
Ma perché nel mondo si cominci a riciclare acqua sistematicamente c’è bisogno di investimenti, e di un cambio di approccio che è innanzitutto culturale. In molti paesi alcuni progetti di riciclo delle acque reflue sono stati bloccati da associazioni cittadine, nonostante la qualità dell’acqua risultante fosse stata garantita a livelli persino superiori a quelli standard.
In Italia, su questo versante, siamo parecchio indietro: basti pensare che, mentre in media le nazioni UE siano ormai in grado di trattare il 76% delle proprie acque di scarico in modo da poterle sfruttare per l’agricoltura e altri impieghi non legati al consumo personale, in Italia questa percentuale ancora non supera il 56%. Un bel problema per un paese con il consumo d’acqua pro-capite più alto d’Europa e con un quarto del territorio a rischio desertificazione.
E dire che l’Italia sarebbe il paese dell’Europa meridionale più ricco di risorse idriche. Il problema è che è anche uno dei paesi che le gestisce peggio: di tutta l’acqua immessa in rete, circa il 40% viene dispersa lungo il tragitto, spesso a causa di un’infrastruttura obsoleta, con alcune città (come Latina e Belluno) che raggiungono punte del 70%.
Oltre a investire sul riciclo e sul riutilizzo, dunque, per un paese come il nostro è fondamentale intervenire per ottimizzare la distribuzione idrica, anche attraverso la digitalizzazione dei circuiti integrati, nonché, in previsione di una crisi climatica sempre più pesante, creare invasi per la raccolta di acqua piovana. Ma anche queste buone pratiche potrebbero rivelarsi insufficienti se, nell’adottarle, non ci preoccupiamo di cambiare anche il modo in cui pensiamo all’acqua.
Il diritto all’acqua è sempre più a rischio
Lo scorso 22 marzo, in occasione della giornata mondiale dell’acqua, il Comune di Milano ha annunciato il lancio sul mercato cittadino di una versione confezionata (in brick di cartone poliaccoppiato e riciclabile) della cosiddetta “acqua del sindaco”, sarebbe a dire la stessa che esce dai rubinetti, dalle fontanelle e dalle 53 cassette dell’acqua distribuite sul suolo cittadino. L’iniziativa, come era logico aspettarsi, ha raccolto le perplessità sia degli attivisti, che non hanno mancato di fare notare come incentivare il consumo di acqua confezionata sia tutt’altro che utile alla transizione ecologica, sia di comuni cittadini abituati da tempo a usare borracce e contenitori riutilizzabili.
È il caso di ricordare che in Italia solo una persona su tre beve acqua del rubinetto, il che è sconfortante se consideriamo che nella maggioranza dei casi l’acqua che arriva alle nostre case è più pulita e controllata di quella imbottigliata. Ed risulta ancora più sconfortante a Milano, dove l’acqua è gestita molto meglio che altrove (la percentuale di spreco idrico non supera il 15%). Lanciare una campagna per pubblicizzare dell’acqua confezionata, in una situazione simile, è abbastanza grottesco.
Ma al netto delle polemiche, la scelta dell’amministrazione milanese è sintomatica del rapporto poco consapevole che abbiamo con l’acqua. Il nostro pianeta ne è coperto per il 71% della sua superficie, ma di questa solo il 4% è acqua dolce, e per la maggior parte è intrappolata in ghiacciai e calotte polari. Il consumo di acqua a livello globale oggi si assesta attorno ai 4600 km cubici l’anno, una quota che si prevede arriverà a 6000 entro il 2050. Il 70% di questa acqua viene sfruttato dal comparto agroalimentare, il 20% da quello industriale e solo il 10% per uso domestico.
L’acqua è un bene scarso nella misura in cui (a differenza del cibo e dell’energia) non può essere prodotta, ed è un bene locale nella misura in cui (a differenza del cibo e dell’energia) non può essere facilmente trasportata su lunghe distanze. Inoltre, a differenza di praticamente qualsiasi altro bene, ha un prezzo tendenzialmente molto basso considerando i costi necessari a gestirlo (il che vale soprattutto per l’Italia dove, per dire, un litro d’acqua costa in media 4 volte meno che in Germania).
Nel luglio del 2010 l’ONU ha riconosciuto l’accesso all’acqua pulita e sicura come un diritto fondamentale per l’essere umano. L’ultimo rapporto IPCC ha reso chiaro non solo che già oggi metà della popolazione mondiale non goda di questo diritto fondamentale, ma anche che, tra crisi climatica e aumento della popolazione, di qui ai prossimi anni la quantità di acqua disponibile per individuo sarà sempre di meno. Se vogliamo che l’accesso all’acqua sia trattato effettivamente come un diritto, dobbiamo intervenire attivamente per cambiare il modo in cui la concepiamo e la gestiamo, e opporci attivamente a ogni tentativo di mercificarla.
E considerando che solo negli ultimi 10 anni si contano 263 conflitti armati innescati da una contesa di risorse idriche, non sarà un’impresa facile.