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Cambiamenti climatici

Perché per adattarci ai cambiamenti climatici dovremo allontanarci sempre più dalle coste e dai fiumi

La drammatica alluvione che ha colpito il Brasile facendo 113 morti e oltre 400.000 sfollati ci ricorda che per adattarci ai cambiamenti climatici allontanarsi da fiumi e coste sarà inevitabile. Già in molte parti del mondo ci sono esempi di managed retreat, ovvero di allontanamento pianificato da zone esposte al rischio.
A cura di Fabio Deotto
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La città di Porto Alegre è una delle più colpite dalle alluvioni e esondazioni che hanno colpito nei giorni scorsi il Brasile
La città di Porto Alegre è una delle più colpite dalle alluvioni e esondazioni che hanno colpito nei giorni scorsi il Brasile
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Fino a poco tempo fa, l'immagine di una città allagata, con la sua griglia di strade trasformata in un reticolo di canali marrognoli, le barche dei soccorsi che sfrecciano tra i tetti delle case, le migliaia di persone sfollate, gli elicotteri che fluttuano a pochi metri come zanzare su una pozzanghera, bastava a mandarci in allarme. Si cominciava subito a parlare di "scenari da fantascienza apocalittica", ci si affrettava a ricordare come il futuro fosse più vicino di quanto avessimo sperato: l'allarme suonava per una settimana, forse qualche giorno di più, dopodiché l'evento spariva inghiottito in un turbine di notizie più fresche.

Quando lo scorso 2 maggio la regione del Rio Grande do Sul in Brasile ha cominciato a inabissarsi sotto una pioggia epocale, il nostro sistema di allarme ha faticato ad attivarsi, quasi quel tipo di immagini e quel tipo di notizie appartenessero ormai al novero degli eventi ricorrenti. Ci sono diverse ragioni per ciò: non ultima la situazione sempre più drammatica sul fronte ucraino e l’invasione israeliana di Rafah; è poi intervenuto il fattore distanza, certo – dopotutto stiamo parlando dell'altra parte del mondo, e il nostro bias di prossimità non vede l'ora di mettere in ombra eventi che non percepiamo come vicini a noi. Ma c'è anche una questione di assuefazione: negli ultimi anni abbiamo visto immagini simili più e più volte, spesso anche in città italiane, e una parte di noi sta cominciando ad abituarsi all'idea che una città coperta d'acqua non sia più un fatto eccezionale.

Tecnicamente è così. Eventi che un tempo si verificavano una volta ogni secolo ora possono presentarsi anche a distanza di anni, a volte addirittura di pochi mesi. È una tendenza destinata a peggiorare, considerando che anche nella migliore delle ipotesi i gas serra già presenti nell'atmosfera continueranno a riscaldare il pianeta almeno fino agli 1.5 gradi, e che l'intensità degli eventi estremi viene influenzata dal riscaldamento globale. Ma c'è un altro aspetto da considerare: nella maggior parte dei casi i danni maggiori vengono registrate nelle comunità più vicine a corsi d'acqua e bacini idrici. E infatti in Brasile le città della valle de Taquari e quelle affacciate sul lago Guaíba (come Porto Alegre), sono state quelle più colpite.

Anche questa non è una novità: gli insediamenti costieri e fluviali sono sempre più vulnerabili alle intemperanze della crisi climatica. Per ovviare a questo problema molti stanno progettando strutture di protezione più resistenti (e invasive), altri stanno puntando sul ripristino di ecosistemi utili ad arginare le inondazioni, (come le foreste di mangrovie e le barriere coralline) ma c'è anche chi sta cominciando a pensare che forse abbia senso battere in ritirata.

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Ritirate programmate e allagamenti controllati

Fin dagli anni ‘90, i Paesi Bassi, una delle nazioni più vulnerabili alle alluvioni e alle inondazioni, hanno cominciato un processo che punta a lasciare più spazio ai fiumi, anche a costo di rubare spazio agli attuali insediamenti urbani. Il progetto, didascalicamente intitolato “Room For River”, prevede tra le altre cose l’allargamento delle golene, ossia le zone pianeggianti comprese tra il letto del fiume e i suoi argini, così da consentire al fiume di esondare in sicurezza durante gli eventi estremi e ridurre il rischio di tracimazione. Per fare ciò è necessario spostare gli argini e le dighe andando a riprendere quella parte di territorio che un tempo accoglieva le esondazioni e che oggi è occupata da abitazioni e infrastrutture. Negli ultimi 30 anni, interi quartieri nella zona del delta del Reno sono stati riposizionati: le persone che ci abitavano hanno ricevuto laute compensazioni, ma di fatto sono state costrette a vendere e trasferirsi.

Un approccio diverso è stato attuato in Canada, nella zona del fiume Ottawa. Dopo le devastanti inondazioni del 2017 e 2019, il governo provinciale del Quebec ha deciso di favorire l’allontanamento dal fiume, subordinando l’elargizione di fondi di soccorso alla scelta di trasferirsi altrove: i proprietari di casa che decidevano di ricostruire nello stesso punto di prima potevano ancora accedere ai finanziamenti, ma accettavano di rinunciare a qualsiasi futuro aiuto statale.

Altri casi simili si osservano in tutto il mondo, ma sono ancora eccezioni. In molti luoghi l’idea di uno spostamento pianificato dalle zone pericolose (o di un “managed retreat”, per utilizzare il termine più diffuso), è ancora tabù. Basti pensare alla situazione americana, dove di fronte a eventi estremi sempre più devastanti, le leggi vigenti finiscono addirittura per favorire la ricostruzione nelle zone più vulnerabili: i proprietari ricevono fondi pubblici per ricostruire in zone alluvionali, e molti lo fanno, nonostante poi non ci siano compagnie assicuratrici disposte a tutelarli. Il risultato è che oggi, sulle coste della Florida e della Louisiana, ci sono cantieri che rischiano di essere devastati ancor prima di aver completato le ricostruzioni.

Il nostro attaccamento alla terra

Se questo tipo di ritirata pianificata non sta raccogliendo entusiasmi non è soltanto perché progetti così ambiziosi e complessi richiedono ingenti investimenti (e un'enorme volontà politica), ma anche perché tra tutte le opzioni possibili quella di abbandonare un territorio è, comprensibilmente, quella meno gradita tra le singole persone. Questo anche quando la situazione è ormai irrecuperabile.

Basti pensare all'esempio di Isle de Jean Charles, una comunità nella Louisiana meridionale che negli ultimi 50 anni ha visto inabissarsi il 98% del territorio: di fronte a una situazione così emergenziale, il governo federale statunitense ha letteralmente ricostruito una comunità diverse decine di km più a nord, lontano dalla costa, consentendo agli abitanti del luogo di trasferircisi gratuitamente. Alcuni hanno accettato, altri invece, hanno deciso di restare dove sono, sollevando la propria casa su palafitte e aspettando a braccia incrociate che l'acqua arrivi a coprire anche gli ultimi fazzoletti di terra.

Per quanto possa essere la soluzione più pratica, abbandonare il posto in cui si hanno radici e ricordi può rivelarsi estremamente difficile. Ma non impossibile. Il caso di Kiruna, città del nord della Svezia che è stata ricostruita a chilometri di distanza per evitare che collassasse sopra una miniera, dimostra che una comunità può arrivare a decidere compatta per un trasferimento radicale, se vengono fornite alle persone le informazioni e le risorse necessarie a rendere questo brusco cambiamento appetibile.

Ma spesso queste risorse mancano. Prendiamo la città di São Carlos, nel Brasile sud-orientale, una delle zone più vulnerabili ad alluvioni e allagamenti: nel corso degli anni, con l'intensificarsi degli eventi atmosferici, i cittadini hanno cominciato a sviluppare sistemi di adattamento improvvisati: i negozianti, per dire, ogni anno si procurano chiuse più alte per proteggere i propri esercizi dall'insistenza delle acque. Nonostante la situazione stia diventando via via meno sopportabile,la maggior parte di loro non contempla minimamente la possibilità di spostare la propria attività altrove: finché si potranno installare barriere sufficientemente alte, non si sposteranno da dove sono.

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Un nuovo concetto di casa

La loro reazione dei commercianti di São Carlos, come quella degli abitanti storici di Isle de Jean Charles, è del tutto comprensibile. Per questo il dibattito si articola attorno al concetto di "ritirata programmata" e non di "ritirata individuale": poiché le città sono organismi interconnessi, il trasferimento di un quartiere spesso non si esaurisce in un processo di vendita e trasloco. Il più delle volte, per dire, ha effetti anche sul valore dei terreni limitrofi, andando a creare problemi seri a interi quartieri, spesso occupati dalle fasce più vulnerabili della popolazione.

Se ci aspettiamo che le città costiere si svuotino progressivamente, e sulla sola iniziativa di singoli cittadini preoccupati da situazioni sempre meno gestibili, non basteranno decenni a risolvere il problema, e nel frattempo dovremo rassegnarci ad osservare molte altre situazioni catastrofiche come quella osservata in Rio Grande do Sul.

Gli esperimenti di managed retreat più efficaci sono stati quelli che hanno calcolato in anticipo tutte le potenziali ricadute di uno strappo così traumatico, e soprattutto: quelli che hanno coinvolto la cittadinanza nel processo decisionale.

Tra i tanti cambi di sguardo che la crisi climatica ci sta costringendo a operare, uno di quelli più difficili riguarda il rapporto che abbiamo con il territorio in cui siamo nati e cresciuti, con il posto che consideriamo casa. Che non è solamente il terreno su cui sorge l’edificio in cui siamo cresciuti, ma anche il posto che custodisce i nostri ricordi e quelli dei nostri famigliari, la nostra cultura, la nostra storia. Nel parlare di “ritirata programmata” non possiamo trascurare che  perdere un pezzo di territorio significa perdere molto di più di un pezzo di terra, ed è solo elaborando questo lutto che potremo adattarci a vivere in un mondo che è già cambiato e continuerà a cambiare.

Come ci stiamo abituando a vedere immagini di città allagate, ci abitueremo anche all’idea che i quartieri possano essere abbandonati alle acque, e che il nostro concetto di casa possa essere riconcepito altrove. Ma sarà un percorso difficile, e va affrontato con tutta la cura e l’empatia di cui siamo capaci.

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