È ragionevole supporre che nei prossimi anni andare al supermercato sarà diverso rispetto a oggi. E non solo perché il riscaldamento globale e la crisi climatica stanno rendendo più difficile produrre alcuni alimenti (e più facile produrne altri), ed è quindi probabile che la disponibilità (e il prezzo) di beni che oggi diamo per scontati varierà parecchio; ma anche perché gli articoli che preleveremo dagli scaffali avranno probabilmente etichette che, oltre a darci le solite informazioni (prezzo, ingredienti, scadenza, etc.), ci renderanno note le emissioni che quel prodotto comporta. E il tipo di danni per l’ambiente che il suo consumo contribuisce ad alimentare.
La scorsa settimana, un gruppo di ricerca della Durham University, in UK, ha pubblicato uno studio che mostra come una quota compresa tra il 7% e il 10% dei consumatori rinunci a scegliere i prodotti più impattanti, come ad esempio quelli di origine animale, se messi di fronte a etichette che associano l’impronta di carbonio di un alimento a immagini disturbanti legate alla crisi climatica.
Parliamo di una percentuale simile a quella riscontrata dopo l’introduzione di avvisi analoghi sui pacchetti delle sigarette. Ed è una percentuale tutt’altro che bassa, soprattutto considerando che se davvero vogliamo arginare la crisi climatica, il nostro consumo di carne dovrebbe calare sensibilmente di qui ai prossimi anni.
Questo tipo di notizie può rivelarsi un’arma a doppio taglio, perché se da un lato favoriscono un passo nella direzione giusta, dall’altra rischiano di passare per risolutive. E per quanto ci risulti difficile accettarlo, non è (solo) cambiando le nostre scelte individuali di consumo che possiamo sperare di risolvere il problema.
Un problema sistemico
Qualche anno fa è stato diffuso un report che rivelava come il 70% delle emissioni del comparto fossile e del settore cementizio fossero imputabili a sole 100 aziende. Come spesso accade, queste cifre sono state strumentalizzate per portare acqua all’uno o all’altro mulino. Da un lato c’era chi ne deduceva che i consumi individuali fossero responsabili di soltanto il 30% delle emissioni globali, e dunque concludeva che, anche nell’ipotesi in cui tutti facessimo scelte virtuose, il problema sussisterebbe; dall’altro c’era chi sosteneva che quelle 100 aziende non produrrebbero simili emissioni se non ci fosse una larga maggioranza della popolazione che consuma i loro prodotti. In un certo senso, avevano torto e ragione entrambi, ma di certo i primi erano i più vicini alla verità.
Questo vuol dire che se tutti adottassimo buone pratiche potremmo ridurre di oltre un terzo le emissioni legate alle attività umane? Purtroppo la situazione è molto più complessa di così. Se andiamo a vedere i reali impatti delle nostre azioni individuali, infatti, diventa chiaro come, in assenza di un cambiamento collettivo e coordinato, come singoli consumatori possiamo ottenere ben poco.
Per dire, io posso anche decidere di non prendere più aerei, ma nel frattempo ci sono compagnie che fanno decollare migliaia di velivoli vuoti per non perdere i loro slot aeroportuali; posso decidere di tenere i caloriferi al minimo, ma continuerò a vivere in un condominio che è in classe energetica F e che sfrutta gas per riscaldarsi; posso chiudere l’acqua della doccia mentre mi insapono, o quella del rubinetto mentre mi lavo i denti, ma l’infrastruttura idrica del mio paese continuerà a sprecare il 40% dell’acqua che trasporta; posso smettere di comprare carne e latticini, ma finché gli allevamenti intensivi saranno legali sugli scaffali il roastbeef costerà meno delle polpette vegane; posso decidere di comprare soltanto alimenti sfusi e a chilometro zero, ma quegli alimenti potranno comunque essere prodotti deforestando ettari di foresta vergine e sfruttando energia fossile; posso cercare di convincere le persone che mi circondano a ridurre la loro impronta di carbonio, ma continuerebbero ad esserci individui che da soli inquinano come 530.000 cittadini europei messi insieme.
Insomma: posso anche decidere di dedicare tutto il mio tempo, denaro ed energie a ridurre al minimo la mia impronta di carbonio, ma finché ogni aspetto del sistema economico e produttivo in cui vivo sarà incardinato ai combustibili fossili, i miei consumi andranno comunque a rafforzare lo status quo (anche perché vivo in un paese che ogni anno investe miliardi per tenere in piedi il settore fossile).
Il divide et impera di Big Oil
Il termine “impronta di carbonio” (o carbon footprint) è ormai è entrato nel vocabolario comune da diverso tempo: è il parametro con cui possiamo valutare l’impatto climalterante di prodotti, aziende e comportamenti individuali. Ma se oggi il web è disseminato di strumenti che consentono di calcolare nel dettaglio l’impronta di carbonio di ogni aspetto della nostra vita, è in buona parte merito di un’azienda petrolifera, la BP, che all’inizio degli anni 2000 ha lanciato una campagna pubblicitaria, intitolata “Beyond Petroleum” (in italiano: oltre il petrolio) allo scopo di “sensibilizzare” i singoli cittadini sulle ricadute ecologiche delle loro scelte. Le persone, in sostanza, venivano invitate a utilizzare un carbon calculator per prendere atto di quanta anidride carbonica fosse legata alla loro dieta, all’auto che guidavano, ai prodotti che compravano; in sostanza: a cosa e quanto consumavano.
A questo punto uno giustamente si chiede: che interesse può avere un’azienda che macina miliardi di dollari ogni anno estraendo, raffinando e vendendo petrolio, a ricordare ai cittadini che esiste un problema ambientale e che questo è legato ad attività umane? Non corre il rischio di essere additata come colpevole di un’emergenza conclamata? Il punto è che questa campagna nasce precisamente per evitare questo rischio: facendo ricadere la responsabilità del riscaldamento globale sui singoli cittadini, un’azienda può fingere di voler cambiare rotta, di voler essere ecologicamente neutrale, e incolpare i consumatori del fatto che questa transizione ancora non sia stata avviata.
Negli ultimi 30 anni, le aziende fossili hanno speso miliardi di euro in campagne di disinformazione che avevano il chiaro tentativo di ritardare l’azione climatica, e una delle strategie retoriche che si sono dimostrate più efficaci è stata proprio quella di diffondere la narrazione secondo cui la crisi climatica è colpa del comportamento dei singoli consumatori, e pertanto qualsiasi cambiamento significativo debba necessariamente nascere dal basso. Questa retorica è vincente – dal punto di vista di chi ha interesse a mantenere lo status quo – anche perché spinge le persone a cercare “soluzioni” facili (ad esempio: consumare diversamente) a discapito di azioni complesse e collettive (ad esempio: organizzare una causa climatica, bloccare un nuovo progetto estrattivo, fare pressione sulla politica).
"È assolutamente necessario superare il concetto di individualismo che è radicato nella società", ha dichiarato in proposito Robert Brulle, professore di Sociologia ambientale alla Brown University "Le vostre azioni individuali, per quanto ammirevoli, devono essere sostenute da un’azione collettiva che chiami in causa le aziende fossili".
Da soli non ce la possiamo fare
Quindi le scelte individuali non servono a nulla? Tutt’altro, adottare pratiche virtuose è importante: non solo perché i nostri consumi hanno comunque un peso, ma anche perché i cambi di rotta, quando non sono appesantiti da prediche e moralismo, sono contagiosi. L’abbiamo detto più volte: per arginare la crisi climatica dovremo adottare decine di trasformazioni in parallelo, per farlo c’è bisogno di credere nella possibilità di un cambiamento radicale positivo, ma anche di contrastare lo strisciante fatalismo di chi vuole convincerci che la sfida sia impossibile (suscitare fatalismo, non a caso, è un’altra strategia retorica delle aziende fossili). Ecco, fare scelte virtuose ci pone nella condizione di abitare un cambio di paradigma, oltre che invocarlo, e allo stesso tempo aiuta chi ci circonda a recuperare fiducia nella possibilità di un cambiamento positivo.
Però, per quanto sia utile cambiare le nostre abitudini in anticipo sui tempi, è fondamentale tenere sempre bene a mente che questo non sarà mai sufficiente. Sarebbe bello, e confortante, se davvero potessimo salvare il mondo guidando di meno o mangiando vegano, ma la triste realtà è che queste pratiche saranno inutili se nel contempo non ci batteremo collettivamente per un cambio di paradigma trasversale. L’idea per cui un problema sistemico come la crisi climatica possa essere risolto riconfigurando quello stesso sistema è un concetto che le aziende fossili cercano (riuscendoci) di inculcarci in testa da trent’anni, perché sanno benissimo che cambiare sistema significherà per loro rinunciare a un’enorme fonte di potere e arricchimento. Ma a conti fatti, sperare di risolvere il problema climatico cambiando consumi sarebbe come sperare di poter riparare da soli una casa che ci hanno preso a martellate, e di farlo usando solo un martello.
Alcuni anni fa, l’attivista e scrittore Bill McKibben ha detto una cosa molto saggia: “La cosa migliore che possiamo fare individualmente per la crisi climatica, è pensare meno come individui.” Oggi è un motto più valido che mai. Finché non capiremo che nessun individuo ha mai cambiato le cose da solo, lo status quo sarà al sicuro e noi non potremo far altro che sciacquarci la coscienza in silenzio, mentre un centinaio scarso di aziende continuano a rosolare il pianeta indisturbate.