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Cambiamenti climatici

Perché non è vero che contro il cambiamento climatico “non c’è più niente da fare”

Rassegnarci che non ci sia niente da fare per evitare la crisi climatica è un errore grosso, il fatalismo non ci aiuterà.
A cura di Fabio Deotto
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Carsten Koall/Getty Images
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Nel 1949 il sociologo americano Robert K. Merton ideò l’esempio perfetto per spiegare cosa sia una profezia autoavverante: immaginò che, in una piccola città di nome Millingville, un giorno  comunità cominci a girare voce che la banca cittadina sia in procinto di fallire; sono voci false, ma invece di preoccuparsi di controllarne la veridicità, le persone di Millingville decidono di cautelarsi andando a prelevare tutti i propri risparmi; ma poiché nelle casse della banca non c’è abbastanza liquidità per soddisfare le richieste, la banca fallisce. Si tratta di un aneddoto di finzione, ma inquadra una dinamica psicologica molto comune negli esseri umani e, con i dovuti distinguo, si adatta bene a descrivere quello che rischia di succedere con la crisi climatica.

Perché se da un lato è vero che la transizione ecologica procede a rilento, ed è vero che lo scenario geopolitico è quanto mai frammentato, come è vero che non stiamo lontanamente facendo abbastanza per scongiurare il collasso climatico, è anche vero che le soluzioni esistono, le risorse per adottarle le abbiamo, il tempo pure (anche se poco), e abbandonarsi al fatalismo è il modo più facile per disinnescare ogni possibilità di cambiamento.

Il fatalismo è seducente

Intendiamoci: resistere alle sirene del fatalismo non è semplice, soprattutto di questi tempi, e soprattutto se si è al corrente di quanto male stiano andando le cose. Non mi riferisco solo alla guerra in Ucraina, che ha frammentato ulteriormente lo scenario geopolitico, ispessendo quelle barriere tra nazioni che già prima del 2022 rendevano complicato coordinare una risposta globale alla crisi climatica; mi riferisco anche al fatto che, nonostante l’estate devastante che abbiamo appena superato, nonostante le inondazioni, la siccità e gli incendi, i governi ancora stentino ad avviare una transizione energetica ed ecologica rapida, il tutto mentre le emissioni continuano a crescere. In una situazione simile, il singolo individuo, sapendo che le scelte di consumo personale non bastano a risolvere la questione, finisce per sentirsi impotente e sposta lo sguardo dall’altra parte.

E io lo capisco. Capisco benissimo chi preferisce abbandonarsi al fatalismo, perché ne ho io stesso la tentazione: dopotutto, quanto tempo è che ci sgoliamo, che scriviamo pezzi, che ci incateniamo agli oleodotti, che riduciamo il consumo di plastica e di carne, che facciamo campagne sui social e in strada, quanto tempo è che una comunità scientifica sempre più compatta, e dotata di strumenti sempre più sofisticati traccia prospettive di declino che puntualmente si realizzano? Perché continuare a impegnarsi, a leggere notizie sconfortanti, a riflettere continuamente sul fatto che il mondo come lo conosciamo stia finendo, se non c’è nulla o quasi che un individuo possa fare per scongiurare il disastro? Tanto vale dedicare il tempo che rimane a mordere il frutto maturo un attimo prima che marcisca (ovvio, sempre che si sia nella condizione di farlo).

Ma anche questo atteggiamento, per quanto poco edificante, è comprensibile, e non intendo fare la predica a chi, per stanchezza o edonismo, decide di gettare la spugna. Non me la prendo con chi pensa che siamo spacciati, ma con chi, come Jonathan Franzen e altri meno noti e influenti di lui, proclama a petto gonfio che non si può fare nulla, perché è una falsità pericolosa e infettiva. Le considerazioni che esprimiamo ad alta voce sul mondo che ci circonda hanno un alto potere persuasivo, e questo perché siamo una specie sociale, che nel corso dell’evoluzione ha sviluppato sistemi di valutazione del pericolo basati anche sull’osservazione del comportamento altrui. E come se non bastasse, l’evoluzione ci ha dato in eredità anche una congenita difficoltà a immaginare un futuro radicalmente diverso e allo stesso tempo migliore del presente.

Guardiamo al futuro con lenti opache

Una delle caratteristiche tipiche degli esseri umani è disporre di un cervello programmato per pensare costantemente al futuro: a muovere le nostre azioni, a conti fatti, è più l’idea di un futuro potenziale che il ricordo di un passato concreto. Ma la ricerca ha dimostrato che quando pensiamo al futuro usiamo gli stessi percorsi neurali di quando ricordiamo il passato: quello che abbiamo imparato e sperimentato, dunque, influisce direttamente sulle nostre previsioni. Il risultato è che quando ci dicono che per sconfiggere la crisi climatica c’è bisogno di un cambio di paradigma radicale, ossia di una trasformazione trasversale del sistema economico e produttivo, i nostri cervelli trovano più facile concentrarsi su tutto ciò che potrebbe andar male, piuttosto che  immaginare come invece la nostra situazione potrebbe cambiare in meglio.

Pensiamo anche solo a quello che è successo nel 2003, quando è stata introdotta la legge Sirchia, che vietava di fumare all’interno di bar e ristoranti: molti dei fumatori che conosco, all’epoca, si infuriarono, la presero come una violazione di una libertà personale, in alcuni casi arrivarono persino a litigare con gli esercenti che chiedevano loro di uscire ad accendersi una sigaretta; ora quelle stesse persone, di fronte alla possibilità di tornare indietro, sono le prime che si opporrebbero.

Cosa significa questo? Significa che siamo in una brutta situazione, è vero, ma abbiamo tutte le carte in regola per uscirne (per averne un’idea basta dare un’occhiata alla terza parte dell’ultimo rapporto IPCC), quello che manca è la volontà politica, e quella volontà politica manca anche per colpa di quella vocina fatalista che abbiamo interiorizzato e che ci dice che tanto è tutto inutile, che non cambierà mai niente, perciò tanto vale rilassarci. Senza contare che le stesse persone che si professano fataliste, e che senza rendersene conto spargono disperazione climatica in ogni dove, sono molto probabilmente guidate da quella distorsione cognitiva che rende a tutti difficile pensare che il nostro mondo possa cambiare radicalmente e in meglio. Una ragione in più per tacere.

Il fatalismo è il carburante del negazionismo

Ma c’è anche a chi il fatalismo fa comodo. Se c’è una cosa che i libri sul negazionismo climatico insegnano (ve ne consiglio due, entrambi strepitosi: "I bugiardi del clima" di Stella Levantesi, e "La nuova guerra del clima" di Michael E. Mann), è che chi ha interesse a ritardare o rimandare indefinitamente la lotta alla crisi climatica non tenta più di diffondere l’idea che il cambiamento climatico non sia reale – sarebbe del resto, impossibile argomentarlo, visto tutte le prove che abbiamo accumulato-; piuttosto si concentrano sulla diffusione di narrazioni alternative, che ci rassicurano spiegando che il problema non è a uno stadio così avanzato, o che il capitalismo estrattivista sia un sottoprodotto inevitabile della specie umana, o che l’unica cosa che si possa fare è ridurre i propri consumi e fare scelte individuali ecosostenibili.

Queste narrazioni funzionano perché fanno leva sul fatto che, di fronte a un problema così trasversale e complesso come la crisi climatica, un singolo individuo si sente soverchiato, annichilito, ridotto ad avere un ruolo piccolo e marginale: se anche cambiando completamente stile di vita il problema non viene risolto, recita l’adagio, cos’altro può fare una persona? Può informarsi, innanzitutto, giorno per giorno, facendosi un’idea sempre più chiara di un problema incredibilmente sfaccettato, che tocca ogni aspetto della nostra vita su questo pianeta; una volta che si è informato ne può parlare con altri, e può rispondere con argomentazioni valide a chi continua a ripetere che le soluzioni non esistono, che “una radicale destabilizzazione della vita sulla Terra è ormai inevitabile” per citare le argomentazioni di Jonathan Franzen. Perché il punto è che tutto ciò non è vero: il fatalismo climatico è un lusso che si può permettere chi ha il privilegio di aver già vissuto almeno metà della propria esistenza sfruttando senza troppi problemi un sistema fossile, e chi ha il privilegio non essere (ancora) esposto alle attuali ricadute della crisi climatica, e può quindi cullarsi nell’idea di trascorre i propri ultimi giorni con i piedi all’asciutto, un frigorifero pieno di cibo e un tetto sopra la testa.

Esistono persone che dedicano ore ogni giorno a informarsi, e a informare, a rendere possibile quel cambio di passo che potrebbe (nel senso che ha la concreta possibilità di) metterci su una strada di salvezza dalla crisi climatica; ma buona parte del loro lavoro rischia di essere neutralizzato dalla contagiosa alzata di spalle di chi invece ha deciso di non lottare. Per questo, quando percepiamo che la prospettiva climatica ci sta schiacciando, quando – comprensibilmente – ci sembra che non esista via d’uscita da questo ginepraio, occorre ricordarsi che il nostro sguardo sul mondo è limitato, che il nostro sguardo sul futuro lo è ancora di più, e che possiamo incanalare la nostra ansia climatica in qualcosa di positivo. O nel dubbio, tenerci dentro la disillusione per impedire che diffonda tossine.

Ragionare meno come individui e più come collettività

C’è una frase che Bill McKibben da alcuni anni usa come una vera a propria bandiera: “La cosa migliore che possiamo fare come singoli individui e pensare meno come singoli individui” dice l’attivista americano; e ha ragione: se c’è un fattore che alimenta il nostro pessimismo climatico è il fatto che viviamo in un sistema che ci spinge a ragionare come individui assoluti, come se le nostre scelte e le nostre azioni dovessero inquadrare come direttiva principale il nostro tornaconto. Il punto è che il nostro tornaconto non dipende soltanto dalle scelte e dagli eventi che riguardano la nostra sfera individuale: proprio perché viviamo in una società, e in un ecosistema, tutto ciò che facciamo è influenzato dalle dinamiche in corso a livello sistemico, e, per quanto ci infastidisca accettarlo, è più il peso che il sistema può esercitare sul singolo che quello che i singoli possono esercitare sul sistema.

È il caso di ricordare che i consumi personali coprono solo il 30% delle emissioni di gas serra, e se è vero che un cambio di consumo radicale aiuterebbe a spingerci nella direzione giusta, per ottenere un cambio di paradigma effettivo è necessario riformare un sistema che sfrutta i combustibili fossili non solo come fonte di energia ma come mezzo di arricchimento e speculazione (ricordiamo che tuttora vengono investiti, dalle varie nazioni, migliaia di miliardi di euro per tenere in vita il settore fossile). Non è un caso che, tra le strategie più insidiose delle grandi compagnie petrolifere, quella che da 40 anni continua a dare frutti è convincere i cittadini che il problema non sia un sistema fossile, quanto le loro scelte poco virtuose. E anche questo va ad alimentare il fatalismo climatico: Io ho fatto il mio, può dire il consumatore virtuoso, pulendosi la coscienza e preparandosi a pensare ad altro, non c’è altro che possa fare per cambiare le cose.

Ragionare meno come individui significa in primo luogo informarsi sulle interconnessioni che fanno della questione climatica un problema collettivo, e quindi entrare in contatto con altre persone che stanno cercando di affrontare la crisi climatica al di fuori della sfera individuale. È stato dimostrato (e ci sono fior studi scientifici al riguardo) che l’attivismo climatico negli ultimi cinque anni ha avuto un ruolo insostituibile nell’esercitare la pressione sociale e politica necessaria a promuovere una progressiva decarbonizzazione, ottenendo risultati concreti.

Allo stato attuale, la cosa peggiore che possiamo fare è convincerci (e convincere altre persone) che non ci sia modo di uscire da questa crisi. È normale sentirsi frustrati, sconfortati, disillusi, arrabbiati, pessimistici, ma esistono tanti modi di incanalare queste energie negative in qualcosa di utile: informarsi può aiutarci a sentire il problema come meno soverchiante e a scoprire quante soluzioni esistano; sensibilizzare può aiutarci a diffondere fiducia e, magari, a impedire ad altri di avvitarsi nel fatalismo; scendere in piazza, unirsi a gruppi attivisti, può aiutarci a vedere oltre la nostra nebulosa dimensione individuale e toccare con mano quante altre persone vogliano effettivamente cambiare le cose.

C’è una favola di Esopo che illustra una forma diversa di profezia autoavverante: racconta di un contadino che, in punto di morte, rendendosi conto che i propri figli non sanno nulla di agricoltura, e non sono perciò in grado di gestire i campi, li manda a chiamare e dice loro “Ragazzi, c’è un tesoro nascosto in una delle mie vigne". Dopo la sua morte, i figli prendono aratri e zappe e si dedicano a rivoltare tutti i terreni del padre. Non c’è alcun tesoro nascosto naturalmente, a parte quello che scopriranno di avere ottenuto in forma di cereali e ortaggi lavorando un terreno coltivabile.

L’abbiamo detto, i nostri cervelli non sono programmati per immaginare nello specifico quanto vantaggioso e vivibile potrebbe essere un futuro decarbonizzato, e dunque totalmente diverso dal presente, ma prenderne atto è il primo passo per rendere quel futuro realizzabile. Perciò, mentre le sirene del pessimismo climatico continuano a cantare, è il caso che noi non smettiamo di scavare.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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