Perché non è un ciclone “normale” quello che ha colpito l’Emilia Romagna: ad alimentarlo la crisi climatica
Non doveva succedere mai più. Invece, appena un anno dopo, sta accadendo di nuovo. Da tutta la giornata la costa adriatica, e in particolare la Romagna, sta subendo un pesante nubifragio. All’ora di pranzo dalla sede della Regione a Bologna fanno sapere che circa mille persone sono rimaste sfollate. Un numero probabilmente cresciuto col passare delle ore. Ravenna la provincia più colpita: a Traversara di Bagnacavallo due persone sono disperse. Ma ad andare sott’acqua sono anche Faenza, Forlì, Castelbolognese.
Com’è possibile? I luoghi sono gli stessi della terribile alluvione di maggio 2023, poco più di un anno fa. In quell’occasione si sfiorarono i 50.000 sfollati, mentre i morti furono 17 e i danni superiori ai 10 miliardi di euro. L’entità della crisi appare minore, almeno per ora, ma la paura rimane. “Alla tempesta che sta investendo parte d’Italia è stato assegnato il nome Boris”, spiega a Fanpage Federico Grazzini, metereologo dell’Arpae Emilia-Romagna. “È nato come ciclone mediterraneo, poi si è spostato in Europa centrale. È una traiettoria tipica. Ha scaricato grandi quantità di pioggia e poi è tornato sull’Italia”. Prima di raggiungere il nostro paese, Boris ha avuto tempo di terrorizzare mezzo Continente. Tra Repubblica Ceca, Polonia, Austria, Romania, Slovacchia si contano già oltre 27 morti. “Questa svolta verso l’Italia è meno tipica, come eccezionali sono le pioggie che abbiamo visto. Il record fino ad ora era stato registrato durante l’alluvione dell’anno scorso, quando in due giorni nella zona dei bacini del Lamone caddero 250 millilitri di acqua. Ecco, quest’anno siamo già sopra i 300. Un primato storico”.
Nelle prossime settimane avremo a disposizione report approfonditi sul fenomeno, ma già ora Grazzini fa la sua analisi. “Temo ci sia la mano del riscaldamento globale, che si manifesta con le alte temperature dei mari dove la tempesta è originata. Questo porta ad un sistema meno stabile e a più vapore acqueo, che alimenta le precipitazioni”. Che Boris sia un “promemoria della crescente minaccia rappresentata dal cambiamento climatico”, d’altronde, lo ha già scritto la direttrice dell’European Climate Research Alliance sulle pagine del New York Times.
Una lezione che si pensava imparata con la tragedia di un anno fa. Ma il governo non sembra voler per questo imprimere un’accelerazione all’abbandono dei combustibili fossili e alla transizione ecologica in generale. Poche ore prima dell’arrivo delle precipitazioni sulla Romagna la premier Giorgia Meloni dichiaravala volontà di “correggere” le politiche verdi europee” frutto di “disastrosi approcci ideologici”. A rincarare la dose ci ha pensato la ministra Daniela Santanché, che in mattinata scriveva sul suo profilo X: “Abbiamo sconfitto un futuro in rosso, ora evitiamo che il colore del futuro sia troppo verde”.
Poi c’è il capitolo gestione del territorio. Su questo è scoppiata la polemica politica. “Prevenzione e gestione del rischio sono competenza delle Regioni e l’Emilia Romagna ha ricevuto dal governo quasi 600 milioni di euro per la lotta al dissesto”, ha detto il ministro della Protezione Civile Nello Musumeci. “La Regione potesse fare lo sforzo di farci sapere quanta di questa risorsa è stata spesa, spero tutta o quasi, e quali sono i territori più vulnerabili” ha concluso. «Sono stati fatti tantissimi cantieri, sto già vedendo delle polemiche e mi dispiace anche perché ormai è un leit-motiv nei momenti di maggiore emergenza» è la risposta indiretta dell’assessore Priolo, che guida l’Emilia-Romagna in attesa delle elezioni previste a breve.
Gabriele Bollini, docente di progettazione e pianificazione sostenibile presso l’Università di Modena, è critico con entrambi: “La verità è che c’è stata un’involuzione del dibattito, altro che imparare dall’alluvione dello scorso anno” spiega. “Lo si era detto anche dopo gli eventi del maggio 2023. Il punto non è ricostruire da capo quello che è stato distrutto, ma riprogettare. Da un lato il cambiamento climatico riduce i tempi di ritorno degli eventi estremi: significa che piogge eccezionali diventano più frequenti, e i territori vanno adattati. Dall’altra c’è la riduzione delle vulnerabilità, da fare a prescindere, che si traduce in primis nel ridare spazio ai fiumi. La legge 183 del 1989, la prima sulla difesa del suolo, introduceva un concetto semplice: quello di bacino idrografico. Si diceva alle autorità di progettare tutto – l’edilizia, i campi – in base ai bacini. Poi si sono aggiunte anche le direttive europee, in particolare la direttiva alluvioni del 2007 e la più recente Nature Restoration Law, che parla esplicitamente di delocalizzare gli edifici e le infrastrutture a rischio, se necessario”. Niente di tutto questo è stato fatto? “No, non nell’ultimo anno ma nemmeno nei dieci precedenti. Bisognerebbe pianificare fiume per fiume, tratto per tratto. È l’unico modo di evitare nuovi disastri”.