Durante il primo lockdown, erano in molte le persone a chiedersi se la convivenza forzata e la mancanza di distrazioni avrebbero portato a un boom delle nascite da lì a nove mesi. Di mesi ne sono passati diversi, di lockdown ce ne sono stati due e ora possiamo tirare le somme: l’Istat certifica che la crisi demografica che ha investito l’Italia non accenna a fermarsi. Secondo le stime prodotte dall’Istituto Superiore di Statistica, il 2021 si chiuderà con meno di 400.000 nascite“. Già lo scorso settembre – scrive Repubblica – si contavano 12.500 nascite in meno, una riduzione quasi doppia rispetto a quanto era avvenuto nel 2020”. Con il 2021 però le cose sono peggiorate e se nel 2020 sono nati 15 mila bambine e bambini in meno rispetto al 2019, quest’anno il divario rispetto al periodo pre-pandemico si allargherà ancora.
Un problema, quello della crisi demografica, che non riguarda solo chi vuole diventare genitore ma tutti e tutte noi, come spiega Matteo Rizzoli sul quotidiano Domani “le implicazioni di questo declino saranno imponenti e toccheranno moltissimi settori dell’economia” a cominciare dalle pensioni, la crisi del settore edilizio – meno nati oggi, vuol dire meno persone che domani avranno bisogno di una casa – e un crescente aumento della pressione contributiva perché “per servire una popolazione di 60 milioni di persone [sarà necessario] un inevitabile aumento delle tasse”. Insomma, oltre al cambiamento climatico, anche la denatalità rischia di avere un impatto devastante già nei prossimi anni.
Allora come mai se ne parla così poco? Forse perché al centro dei discorsi sulla crisi demografica ci sono sempre e solo le donne. Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, commenta su Repubblica gli ultimi dati sulla natalità così: “Le donne nate tra la metà degli anni Sessanta e Settanta, le cosiddette baby boomers, iniziano ad avere un'età matura. Rappresentano una grande fetta di popolazione. Rispetto a loro, le donne in età fertile sono un numero più esiguo, perché nate in tempi in cui già si parlava di denatalità”.
Uno dei motivi per cui le donne vengono chiamate in causa di più rispetto agli uomini riguarda sicuramente la fertilità, che per le donne crolla in maniera vertiginosa molto prima rispetto agli uomini. Eppure noi donne non siamo degli animali da monta – pensate cosa tocca precisare nel 2021 quasi 2022 – ma delle persone e delle cittadine a tutti gli effetti pari, almeno sulla carta, ai nostri colleghi, fidanzati, amici, partner uomini. Se, com’è ormai noto da molti anni, l’età della prima gravidanza aumenta e con essa i rischi connessi, è anche vero che uno dei motivi è che da ormai qualche decennio, le donne hanno iniziato ad autodeterminarsi e molte di loro hanno studiato, si sono formate, hanno avviato imprese, gestiscono attività, insomma lavorano e si guadagnano da vivere. E questo non è solo un loro diritto ma può essere una vera e propria necessità, specie se si vogliono mettere al mondo dei figli o delle figlie. Due stipendi anziché uno sono più comodi, lo dice il buon senso, ma ancora oggi per le donne è più complicato gestire lavoro e cura dei figli anche perché il “peso” di queste mansioni, specie nelle sacche più povere e culturalmente più arretrate, ricade sempre e solo sulle loro spalle. Secondo un rapporto Oxfam “donne e ragazze (soprattutto donne e ragazze che vivono in povertà e appartengono a gruppi emarginati) dedicano quotidianamente 12,5 miliardi di ore al lavoro di cura non retribuito” per un lavoro complessivo di “almeno 10.800 miliardi di dollari all'anno, pari al triplo di quello del mercato globale dei beni e servizi tecnologici”.
Capito perché non conviene mettere in discussione questo sistema? Perché è lavoro gratis. Se a livello globale le cose non vanno bene, in Italia non vanno meglio. L’agenzia Sir riporta che “in Italia, al 2018, l’11,1% delle donne non ha mai avuto un impiego per prendersi cura dei figli. Un dato fortemente superiore alla media europea del 3,7%, mentre quasi 1 madre su 2 tra i 18 e i 64 anni (il 38,3%) con figli under 15 è stata costretta a modificare aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia. Una quota superiore di oltre 3 volte a quella degli uomini”. Volendo tirare le somme dati alla mano, se il lavoro di cura viene svolto gratis dalle donne sollevando gli uomini da queste incombenze, chiaro che sono proprio loro, gli uomini, a non aver nessun interesse affinché cambino le cose. Se non tutti, diciamo una buona fetta. Peccato che – purtroppo per qualcuno e per fortuna per qualcun altro – a molte donne questa situazione non stia più bene e da un bel po’ ed è per questo che si sono fatte sempre più insistenti le richieste di equiparare almeno il congedo di paternità con quello di maternità, una richiesta che ha trovato favorevoli anche molti futuri neo-papà, evidentemente più aperti e desiderosi di aiutare rispetto alle generazioni precedenti.
Peccato che se nel resto del mondo qualcosa sta cambiando, alle promesse della Ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti non siano al momento corrisposti i fatti: bene gli impegni, ma qui contano i risultati. Si tratterebbe di un piccolo ma importante passo verso il riconoscimento della piena eguaglianza tra uomini e donne, ma evidentemente da solo il congedo paritario non basta. Per combattere una crisi strutturale servono cambiamenti strutturali, a iniziare da una divisione più equa del lavoro di cura tra donne e uomini. In questo, chiunque sieda ai vertici di piccole e grandi aziende e chi ha responsabilità decisionali a qualsiasi livello, ha il potere di invertire la rotta, tutto sta a capire se si ha davvero la volontà di farlo.
Più che la conta di quanti ovuli sani rimangono alle donne dopo i trent’anni, occorrerebbe chiedere ai legislatori, agli imprenditori e alle imprenditrici, alle e agli amministratori delegati che intenzioni hanno per le persone che lavorano per loro. Perché se è vero che oggi le dimissioni in bianco sono un ricordo, è anche vero che oggi le discriminazioni si fanno sempre più sottili fino a sfociare in forme felpate di mobbing.
A chi invece invece ha il compito di raccontare la denatalità, andrebbe chiesto di porgere il microfono anche agli uomini oltre che alle donne, perché se è vero che a differenza delle donne loro possono diventare padri anche dopo i cinquant’anni, è anche vero che quelle trentenni che non hanno figli sono spesso loro coetanee. In tutto questo una cosa è certa: non è coi bonus e con gli assegni che salveremo l’Italia dal disastro demografico.