La sera del 26 novembre 2010 Yara Gambirasio, 13 anni, scompare da Brembate di Sopra. È uscita di casa per recarsi al Centro Sportivo di via Locatelli, dove arriva alle 17.30.
Quel venerdì, per lei non è giorno di allenamenti, esce appositamente per portare lo stereo, come riferirà sua mamma Maura. Si intrattiene a guardare le atlete più piccole che si allenano per poi uscire alle 18.30. Rientrando a casa (il suo cellulare aggancia celle differenti ad indicare che il soggetto è in movimento) scambia messaggi con una sua amica fino alle 18.50, si accordano per una gara. Poi Yara scompare nel nulla.
Già alle 19.00 i suoi genitori si allertano e si recano al centro Sportivo per cercarla, non trovandola, intorno alle 20.30 sono dai Carabinieri per sporgere denuncia. Il suo corpo verrà ritrovato in un campo di Chignolo D’Isola il 26 febbraio 2011.
La serie di Netflix appena uscita sul caso dell’omicidio della piccola Yara Gambirasio sembra avere l’ambizione di smontare le tesi accusatorie che hanno portato alla condanna definitiva di Massimo Bossetti. Il titolo appare già premonitore della strutturazione e della finalità della serie “Il caso Yara. Oltre ogni ragionevole dubbio”.
Ecco che di fronte a un caso che da sempre ha diviso le opinioni, tra colpevolisti e innocentisti, la narrazione proposta potrebbe apparire parziale rispetto a quegli elementi che hanno portato alla pronuncia di una condanna così pesante a carico di Bossetti. Le cinque puntate propongono infatti, nella prima parte, una ricostruzione dei fatti accurata e dettagliata, lasciando poi maggior spazio alla difesa di Bossetti e ai suoi consulenti che sollevano criticità rispetto agli elementi di prova a carico del loro assistito.
Cerchiamo quindi di rivederli, sentenze alla mano.
Il luogo in cui Yara è stata uccisa
Il corpo di Yara Gambirasio viene ritrovato, dopo mesi di ricerche, in un campo che era già stato perlustrato (sebbene si evidenzierà nel corso delle indagini e del processo, solo lungo i margini perimetrali e non nelle parti interne) a tre mesi dalla scomparsa.
Il corpo è in avanzato stato di decomposizione e attinto da numerose ferite da punta e taglio che però, non risulteranno essere state, da sole, la causa della morte. La Prof.ssa Cristina Cattaneo accerterà infatti che nell’incertezza dovuta allo stato del cadavere è stato possibile concludere che la bambina sia morta la sera del 26 novembre 2011 per una combinazione di concause tra le quali le ferite riportate e la permanenza in un luogo a bassissima temperatura.
Forse Yara poteva essere salvata. La difesa di Bossetti, nel proporre la validità di ipotesi alternative, ipotizza che la piccola possa essere stata svestita, ferita, avvolta in un drappo e poi portata sul campo di Chignolo in un secondo momento, anche perché, sostengono, le ferite non corrisponderebbero con i tagli rinvenuti sui vestiti che indossava.
In realtà, come si legge nelle perizie, tutte le ferite riscontrate, a eccezione di due, potevano essere state prodotte mentre la vittima era vestita, essendoci sovrapponibilità tra ferite e tagli negli indumenti. Le restanti due ferite potevano essere state prodotte semplicemente sollevando gli abiti, cosa che l’assassino ha certamente fatto, come dimostra il reggiseno rinvenuto slacciato.
Vi sono poi tutta una serie di altri elementi a dimostrazione del fatto che l’omicidio si sia consumato in quel campo e il corpicino sia sempre rimasto lì. Il corpo infatti era mimetizzato nel terreno e nella sua vegetazione, la caviglia destra di Yara era avvolta da fusti di un’erba che sebbene molto comune, è tipica di quel campo.
Yara stringeva nella mano un ciuffo della medesima specie, il corpo aveva lasciato la sua impronta su quel terreno, sugli indumenti e nei margini di alcune lesioni e sotto un’unghia della mano destra sono stati rinvenuti reperti di natura botanica presenti in quel luogo.
Sotto il capo di Yara è stata rinvenuta una foglia turgida, conservatasi dall’autunno precedente evidentemente proprio grazie alla protezione fornitale dal corpo, in diversi distretti corporei sono state rinvenute larve con livelli differenti di sviluppo frutto di ripetute ovodeposizioni, indicative di un’esposizione del cadavere di due o tre mesi e inoltre in una ferita è stata rinvenuta una quantità di terriccio tale da far ritenere che la contaminazione sia avvenuta proprio in quel luogo.
Le particelle di calce e le sferette metalliche
Sugli indumenti e sulle ferite di Yara sono state rinvenute particelle di calce e sferette metalliche tipiche di alcuni ambienti lavorativi dell’edilizia. In fase di indagine sono stati pertanto effettuati da subito accertamenti su fornitori e dipendenti delle 14 ditte che affacciavano sulla zona del rinvenimento del cadavere, con prelievi salivari che non davano esiti positivi.
Per altro le medesime particelle sono state ricercate nell’abitazione dei suoi familiari, nel centro sportivo e nel terreno di Chignolo, con esiti negativi. Anche questi elementi, se non esaustivi da soli, risulteranno significativamente rilevanti nella costituzione del quadro indiziario a carico di Bossetti.
Il Dna di Massimo Bossetti
Parte centrale dell’impianto accusatorio è la presenza del DNA di Bossetti sugli indumenti di Yara. Sono stati infatti identificati solo due profili genetici diversi da quelli di Yara: quello di IGNOTO 1 e quello di Silvia Brena (di cui diremo in seguito).
Nel dettaglio il campione 31, prelevato dagli slip della bambina e dai leggins, in concomitanza con un taglio a forma di J, contiene un DNA maschile dapprima identificato come IGNOTO 1 e poi attribuito a Massimo Bossetti, anche in tracce miste al DNA della vittima, a dimostrazione che quelle tracce sono state lasciate in maniera concomitante.
La difesa contestava l’utilizzabilità della prova per varie ragioni, a partire dalla non garanzia del contraddittorio, al fatto che per alcuni esami fossero stati utilizzati kit scaduti, fino alla validità della prova stessa, contestando l’assenza di DNA mitocondriale nelle tracce in questione. È bene ricordare che nel momento in cui sono stati effettuatati gli esami in questioni, rinvenuto il DNA maschile sugli slip e sui leggins della bambina, l’identità del soggetto non era nota (si parla infatti di IGNOTO1) ed era pertanto impossibile, non essendoci un indagato, che vi fossero i suoi legali o i suoi consulenti.
Alcuni accertamenti sono stati inevitabilmente effettuati con formula di irripetibilità, visto lo stato della traccia. Per quanto riguarda l’assenza del DNA mitocondriale va detto che questo nulla inficia la validità della traccia stessa a scopo identificativo. In ambito forense infetti viene utilizzato il DNA nucleare per individuare l’identità di un soggetto, il DNA mitocondriale poteva non essere presente per varie ragioni, trattandosi appunto di tracce miste.
Il profilo genetico nucleare risulta comunque di ottima qualità e ha consentito l’identificazione di Massimo Bossetti mediante 24 marcatori SRT (in ambito forense sono richiesti 15-16 marcatori per un giudizio di identità).
Le piste alternative
La difesa di Bossetti ha riportato l’attenzione su soggetti che, per ragioni differenti, potevano essere indiziati. Tra questi in particolare Silvia Brena, istruttrice di ginnastica presso il Centro Sportivo che frequentava Yara, il cui DNA è stato rinvenuto sul polsino del giubbino della vittima.
È logico ipotizzare che frequentando lo stesso centro e incontrandosi spesso, Brena possa essere venuta in contatto con la bambina in qualsiasi momento lasciando quella traccia sul suo giubbino. In fase di indagine comunque Silvia Brena e i suoi familiari sono stati ascoltati e sottoposti a intercettazioni, senza che emergesse nulla di rilevante.
Anche Valter Brembilla, custode della palestra è stato attenzionato e intercettato in fase di indagine senza che a suo carico emergesse alcun elemento.
Il movente dell'omicidio di Yara Gambirasio
Il movente individuato dall’accusa è di natura sessuale. Chi ha seviziato Yara, causandone la morte abbandonandola in quel campo, ha agito sul suo corpo mosso da impulsi sadici sessuali, a riprova di ciò sono i tagli superficiali e pertanto non mortali prodotti sul corpo della bambina con lo scopo di causarle sofferenza, i leggins e gli slip recisi e il reggiseno slacciato.
Nella serie Netflix la difesa di Massimo Bossetti ha tentato di smontare il movente, minimizzando il valore delle ricerche sul web che Bossetti avrebbe fatto anche dopo l’omicidio di Yara a chiaro contenuto pedopornografico (anzi escludendo che il contenuto fosse di natura pedopornografico).
La moglie di Bossetti dichiara di aver utilizzato lei quei contenuti anche in assenza del marito e riferisce che alcune ricerche non fossero volontarie ma generate automaticamente. Dalle risultanze informatiche emerge però che le ricerche effettuate riguardino siti in cui si parla di ragazzine con la vagina “rasata” o contenuti come “ragazze+vergini+rosse”, “ragazzine porche” o “ragazzine tredicenni per sesso”, le stringhe sono precedute dalla lettera Q che Google attribuisce a ricerche dell’utente, quindi non suggerite dal motore di ricerca e con evidente matrice pedopornografica.
Alcune di queste ricerche sono state effettuate quando Bossetti non lavorava, pertanto verosimilmente da lui e non dalla moglie, come dalla stessa asserito. Marita Comi al contrario, nel corso di due intercettazioni del 13 dicembre 2014 e del 17 gennaio 2015 nega di aver visitato siti pedopornografici.
Questi sono solo alcuni degli elementi che hanno costituito il quadro accusatorio a carico di Massimo Bossetti, ritenuto, al di là di ogni ragionevole dubbio, colpevole dell’omicidio di Yara Gambirasio.