Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi, diceva Bertold Brecht, che era tedesco.
In effetti, è dura che una frase del genere potesse mai uscire dalla bocca di un italiano.
Noi italiani viviamo dei nostri eroi: bravissimi a issarli sugli scudi, ad appenderli a testa in giù, a rimpiangerli quando sono morti, a struggerci nella nostalgia per le loro gesta, a ucciderci per la loro eredità.
E in fondo, è così che sta andando pure per Diego Armando Maradona.
L’abbiamo accolto come un dio pagano e gli abbiamo fischiato l’inno nazionale durante la finale dei mondiali del 1990. Gli abbiamo perdonato – e ancora gli perdoniamo – le frequentazioni con la camorra, i guai con il fisco, il doping e la cocaina, mentre lasciavamo soli Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella loro guerra contro la mafia. Stiamo issando statue e dedicando stadi alla sua memoria e in suo onore, attorno al mito dell’eroe fragile, mentre nel mondo si fanno cadere uno alla volta i simulacri di eroi figli del loro tempo, che poco hanno da insegnarci oggi. Ci indigniamo contro un mondo del calcio che in piena pandemia rivendica eccezionalità, e poi facciamo del più grande calciatore di tutti i tempi l’eccezione che trascende ogni regola, da quelle del MeToo a quelle della Cancel Culture, arrivando persino a derogare alle norme di convivenza che ci siamo dati durante questa seconda ondata, come se la sua morte fosse fuori dal tempo, dallo spazio e dalle zone rosse. Ce la prendiamo coi miliardari che prendono a calci un pallone – e Maradona è il primo di una lunga fila – e riusciamo addirittura a fare del Pibe il simbolo della sinistra terzomondista, come se lui e Fidel Castro avessero davvero qualcosa in comune, oltre al giorno della loro morte, e quella discreta dose di ipocrisia e arroganza, tipica dei numeri 10 e dei dittatori.
Qualcuno dirà che la grandezza di Diego sta proprio qua. Nel suo essere divisivo fino all’eccesso. Nel suo sbatterci in faccia tutte le nostre contraddizioni. Nell’incarnare come pochi al mondo il mito dell’invincibilità e dell’estrema fragilità, assieme. Nel suo farci sembrare tutti dei moralisti bacchettoni, più e meglio di qualunque rockstar. Nel suo essere contemporaneamente l'icona del privilegio e il figlio del riscatto, più e meglio di qualunque rapper.
Tutto giusto. Però, mentre costruiamo l’ennesimo altare d’oro, non dimentichiamoci che quel monumento è dedicato anche a noi, soprattutto a noi.
Che non sappiamo vincere con la forza del collettivo, senza un fuoriclasse che ci prenda per mano.
Che perdoniamo tutto ai più grandi, e condanniamo senza appello tutti gli altri, con una particolare crudeltà per gli ultimi della terra.
Che attraverso le allegorie dei santi e delle loro gesta sublimiamo la nostra incapacità di affrontare la realtà e vendichiamo le battaglie che abbiamo perso.
Che abbiamo bisogno di eroi, perché senza non sappiamo stare.