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Cambiamenti climatici

Perché né i biocarburanti né gli e-fuel sono sostenibili (ma riescono comunque a sedurci)

Per decarbonizzare il sistema dei trasporti l’unica vera soluzione è dire basta ai motori a benzina e diesel. L’accordo Ue ha escluso dallo stop al 2035 gli e-fuel accontentando la Germania, ma è una pessima notizia per l’ambiente.
A cura di Fabio Deotto
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A quanto pare è ufficiale: a partire dal 2035 nei paesi dell'Unione Europea non si potranno più immatricolare veicoli con motori endotermici. O quasi. Sì, perché a fronte dell’insistenza della Germania, un paese in cui l’industria automobilistica ricopre un ruolo predominante, nell’ultima fase di approvazione il testo è stato modificato per lasciare una scappatoia che consenta di tenere in vita l’industria dei carburanti sintetici, anche detti e-fuel.

Quella che per il governo tedesco è una vittoria, è una sostanziale sconfitta per chi guardava a questo provvedimento come un passo in avanti deciso verso un’autentica decarbonizzazione del trasporto privato a livello comunitario. Ma è stata una sconfitta anche per il Governo Italiano, che ha insistito perché anche i carburanti derivanti da biomasse vegetali fossero inclusi nel ventaglio di soluzioni sostenibili.

Italia e Germania si sono battute il petto fino all’ultimo per forzare il testo in modo da accogliere le loro istanze. La Germania l’ha spuntata, l’Italia no. Sulla carta, questo potrebbe essere inteso come la prova che gli e-fuel siano ecologicamente sostenibili a differenza dei biocarburanti. In realtà entrambi i tipi di combustibili sono tutt’altro che sostenibili. Se la Germania è riuscita ad ottenere ciò che voleva, è più che altro perché aveva più potere contrattuale da far pesare sul tavolo europeo.

Perché i biocarburanti non sono sostenibili

Tecnicamente un biocarburante è un combustibile ottenuto a partire da biomasse, ossia la porzione biodegradabile proveniente da prodotti, rifiuti e scarti di origine vegetale o animale legati all’agricoltura, all’allevamento e alla pesca, alla silvicoltura e ai processi industriali. In parole più semplici: chi produce biocarburanti prende una materia prima di origine organica, che può essere mais, grano, bietola, olio di palma, ma anche olio di cottura, e la raffina per produrre carburanti come bioetanolo, biodiesel e biogas.

Se è vero che, data l’origine organica di questi carburanti, il loro impatto in termini di emissioni è inferiore a quello dei tradizionali idrocarburi come petrolio, carbone e gas, è anche vero che si tratta pur sempre di combustibili, il che significa che per produrre energia devono essere bruciati, e di conseguenza produrre emissioni. Nel migliore dei casi, la riduzione di emissioni si aggira intorno al 60% rispetto ai combustibili tradizionali, ma per valutare l’effettivo impatto di questi carburanti è necessario tenere conto di tutta la filiera produttiva.

Il grosso della materia prima attualmente utilizzata per ottenere biocarburanti non deriva da scarti industriali o di altro genere, bensì da piante coltivate appositamente per essere trasformate in carburante. Per rendersi conto di quanto questo aspetto possa risultare critico, è sufficiente considerare che già oggi per ottenere la quota di biodiesel e bioetanolo consumata nella sola Unione Europea vengono impiegati 14 milioni di ettari di terreno coltivato: praticamente una superficie delle dimensioni della Grecia.

Di fatto puntare sui biocarburanti significa puntare su un aumento della deforestazione diretta e indiretta, su un maggiore consumo di suolo e di acqua, sulla perdita di biodiversità e di nutrienti organici. Insomma, prendendo in considerazione l’intera filiera della produzione di biocarburanti diventa chiaro come il loro impatto complessivo in termini di emissioni e degrado ambientale sia enorme, e non possano essere presentati come un’alternativa sostenibile ai carburanti fossili.

Ma i carburanti sintetici che l’UE ha invece promosso non è che siano poi tanto meglio

Perché nemmeno gli e-fuel sono sostenibili

C’è stato un momento, intorno al marzo dell’anno scorso, in cui sembrava che il governo tedesco, la cosiddetta “coalizione semaforo” (Verdi, socialdemocratici e liberali) avesse deciso di appoggiare senza riserve la decisione UE di vietare l’immatricolazione di nuovi veicoli a combustione interna a partire dal 2035. Ben presto, però, la componente liberale della coalizione ha deciso di battere i piedi, chiedendo che nel novero di fonti ritenute accettabili per la transizione ecologica rientrassero anche i carburanti sintetici conosciuti come “e-fuel”. Così, lo scorso febbraio, la Germania si è posizionata sul fronte di quei paesi (come l’Italia, la Polonia, la Bulgaria e la Romania) che avrebbero potuto votare no allo stop ai motori a combustibile. Una defezione di peso che metteva a rischio il provvedimento. Com’era prevedibile la Germania ha vinto questo ultimo braccio di ferro, e ha ottenuto che i carburanti sintetici venissero inclusi nel pacchetto. Ma non è una buona notizia.

Il cavillo a cui si appiglia chi vuole ritardare l’archiviazione dei motori a combustione puntando sugli e-fuel è che sono carbon-neutral, il che significa che il loro utilizzo non comporta aumento netto di emissioni. Questo tecnicamente è vero. Con il termine e-fuel si indicano tutti quei combustibili ricavati con pratiche di sequestro dell’anidride carbonica dall’aria, e che dunque possono bilanciare la quantità di emissioni che produrranno una volta bruciati con quelle sottratte all’atmosfera durante il processo di sintesi. Sostanzialmente, per produrre questi combustibili vengono impiegati processi di elettrolisi per scindere l’acqua in molecole di idrogeno e ossigeno, che poi vengono combinate con l’anidride carbonica sottratta dall’aria. Poiché queste tecniche possono essere alimentate da fonti rinnovabili, e poiché la componente carbonica viene sottratta direttamente dall’aria, in teoria l’utilizzo di una vettura alimentata a carburante sintetico non dovrebbe apportare un aumento di gas serra nell’aria.

Ho scritto “in teoria” perché, a conti fatti, i motori a carburante sintetico non producono solo CO2, ma anche due altri gas serra molto potenti, come metano e protossido di azoto, oltre a rilasciare un quantitativo di monossido d’azoto che in alcuni casi arriva a superare di tre volte quelli dei motori tradizionali.

Ma anche se gli e-fuel fossero davvero carbon-neutral, rimarrebbero comunque una scelta sbagliata, e per due ragioni. La prima è che i sistemi di sequestro di anidride carbonica dall’aria dovrebbero servire a ridurre quella in eccesso, che già oggi sta cuocendo il pianeta, non per fornire scappatoie al settore industriale. La seconda è che la cattura del carbonio dall’aria è un processo enormemente costoso ed energivoro. Un approfondito report stilato dal gruppo Transport&Environment ha mostrato come, per un utente medio, un veicolo a carburante sintetico comporterebbe un aumento di spesa di circa 10.000 euro nell’arco di cinque anni. Non bastasse, oltre ad essere più dispendiosi, i carburanti sintetici sono assai meno efficienti, basti pensare che mentre ormai i motori elettrici hanno un’efficienza che si aggira tra l’85 e il 90% quelli a e-fuel ancora non superano il 15%, un valore inferiore rispetto agli stessi motori a combustione tradizionale.

Se gli e-fuel possono servire da carburanti di transizione in settori dove ancora non esiste un’alternativa elettrica percorribile, come ad esempio il trasporto aereo o navale, nel caso del trasporto privato sono una falsa soluzione: basti pensare che, data l’elettricità necessaria a produrre carburanti sintetici, un’auto alimentata a e-fuel, per percorrere la stessa distanza, richiede una quantità di elettricità rinnovabile quasi cinque volte superiore a quella necessaria per un'auto elettrica a batteria.

Smettere di bruciare

Se il governo italiano spinge sui biocarburanti, e il governo tedesco spinge sugli e-fuel, è con ogni probabilità perché sperano di ammorbidire la transizione ecologica per chi negli anni ha investito cifre ingenti in soluzioni poco lungimiranti. Per dire: nel 2021, Eni ha avviato il nuovo impianto Btu (Biomass Treatment Unit), che consente alla bioraffineria di Gela di ottimizzare l’utilizzo di biomasse di scarto, e punta ad aumentare di molto la capacità di bioraffinazione di qui ai prossimi anni. La multinazionale italiana ha puntato parecchio su un biocarburante proprietario, l’HVOlution, un biogasolio interamente vegetale, ottenuto da oli provenienti da colture “non in competizione con la filiera alimentare”, da materie prime di scarto e residui vegetali, su cui ha investito circa 8 miliardi di euro in otto anni, predisponendo anche sette diversi centri di ricerca e depositando oltre 7500 brevetti. Analogamente, il governo tedesco punta a investire 2 miliardi di euro in e-fuel, di qui al 2026.

Mentre il resto dell’Europa (e molte delle aziende automobilistiche) punta su un futuro del trasporto privato a misura di elettrico, paesi come l’Italia, la Germania e la Polonia sembrano volerne creare uno a misura di combustibili di nuova generazione. Martedì, il ministro italiano Gilberto Pichetto Fratin ha salutato l’approvazione della misura UE (in merito alla quale, formalmente, l’Italia si è astenuta) come una mezza vittoria, perché consentirà la produzione di motori endotermici anche oltre il 2035; il che lascia pensare che il nostro governo abbia più interesse a tenere in vita un approccio all’energia in via di scadenza, piuttosto che preparare un futuro sostenibile per i suoi cittadini.

I biocarburanti e gli e-fuel erano e rimangono la risposta di un sistema fossile al proiettato esaurimento dei combustibili convenzionali e alla minaccia rappresentata da una transizione ecologica sempre più impellente. Non nascono con l’obiettivo di decarbonizzare il settore dei trasporti ma con quello di tenere in vita una filiera produttiva che è comunque destinata ad essere abbandonata.

Non è solo una questione di investimenti e profitti sul breve termine, è anche una questione culturale. Come spiega bene lo storico Stephen J. Pyne nel saggio Pirocene (Codice Edizioni 2022) la storia della civiltà umana è stata modellata dall’uso del fuoco. È stato bruciando cose che abbiamo esteso il novero dei possibili alimenti, che abbiamo riscaldato ambienti, liberato ampie aree di terreno forestato, combattuto guerre e alimentato industrie. Negli ultimi due secoli, poi, la nostra intera civiltà, con la sua esponenziale crescita economica e industriale, è stata alimentata prevalentemente dalla combustione di carburanti fossili. Come ben sappiamo, questa abbuffata di fuoco ci sta costando cara, eppure facciamo una fatica tremenda a ridurre la quantità di cose che bruciamo.

L’idea che dei combustibili – ossia qualcosa creato per essere bruciato – possano essere ecologicamente sostenibili è figlia di questa assuefazione per il fuoco. Se insistiamo a puntare su carburanti che vengono spacciati come “climaticamente neutri” perché prodotti sequestrando energia dall’aria, è perché il miraggio di un mondo in cui potremo continuare a produrre energia a piacimento a partire da materiali trasportabili ancora ci riesce a sedurci.

La realtà è che per mantenere questo mondo vivibile dobbiamo ridurre drasticamente le nostre emissioni. Tradotto: dobbiamo smettere di bruciare cose. Prima ce ne renderemo conto, prima si dissiperà il fumo che ci impedisce di vedere un orizzonte al di là del sistema fossile.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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