Quanto sta succedendo al confine tra Polonia e Bielorussia, con migliaia di migranti iracheni, siriani, ma soprattutto afghani, che ogni giorno rischiano di morire congelati, sembra non avere nulla a che fare con la crisi climatica. Dopotutto, sappiamo bene cosa sia successo in Afghanistan lo scorso agosto, e siamo stati abituati a fare una distinzione tra profughi e migranti economici, come se ogni persona che attraversa un confine avesse una e una sola ragione per abbandonare il posto in cui ha sempre vissuto.
In realtà, la crisi climatica ha già un ruolo preponderante nell’esodo di persone dall’Afghanistan, così come di molti altri paesi in tutto il mondo. Per farsene un’idea basta incrociare tre dati: il primo è che l’Afghanistan è al sesto posto tra le nazioni più colpite dalla crisi climatica, questo significa che già oggi la sua economia è piagata da inondazioni, ondate di calore, precipitazioni erratiche e una siccità galoppante; il secondo dato è che più del 60% degli abitanti si dedica all’agricoltura come fonte di sostentamento principale; se a questo poi aggiungiamo un terzo dato, e cioè che l’80% dei conflitti in Afghanistan sono legati allo sfruttamento delle risorse naturali, diventa più chiaro non solo quanto il riscaldamento globale stia incidendo sulle cause delle migrazioni, ma anche come sia interconnesso ai conflitti che spingono molte persone a mettersi in marcia.
Tra il 2017 e il 2018, il paese è stato colpito da una siccità di dimensioni epocali che ha causato la morte di decine di migliaia di afghani. L’incapacità del governo di allora di far fronte a un’emergenza simile, unita alla mancanza di risorse necessarie a tutelare tutte le persone che hanno visto la propria vita messa a repentaglio da una crisi climatica ormai prevista da tempo, ha di fatto spianato ulteriormente la strada ai talebani, che spesso hanno fatto leva su queste fragilità per radicarsi nelle comunità più colpite.
Dinamiche di questo tipo non sono un’esclusiva dell’Afghanistan, naturalmente, e stando alle previsioni sono destinate ad aggravarsi. Come vedremo fra poco, la componente climatica sarà sempre più presente, e andrà a moltiplicare il numero di persone che ogni anno non hanno altra scelta che spostarsi.
Cos’è un migrante climatico?
Di qui al 2050 ci saranno almeno 250 milioni di nuovi migranti climatici. È il dato che emerge dall’ultimo rapporto della Banca Mondiale, che calcola quante persone potrebbero essere costrette ad abbandonare la propria casa per colpa di inondazioni, desertificazione, innalzamento delle acque, perdita di biodiversità ed eventi climatici estremi. È una cifra enorme, considerando che oggi si calcola che nel mondo le persone costrette a migrare, quale che sia la causa, non superano i 64 milioni. Ma potrebbe essere una cifra conservativa: stando all’ONU, infatti, il numero di migranti climatici entro il 2050 rischia di raggiungere il miliardo.
Se esiste una forbice così ampia tra queste stime non è per colpa degli strumenti di previsione, quanto dell’etichetta “migrante climatico”, che ad oggi è assai difficile da attribuire. Per capire come mai è necessario ricordare che il riscaldamento globale è un “moltiplicatore di minacce”, il che significa che tendenzialmente non produce nuove problematiche distinte, ma va ad aggravare quelle esistenti. Le persone hanno sempre migrato per colpa di carestie, guerre e cataclismi, il cambiamento climatico sta intensificando questi fenomeni in varia misura: questo significa che qualunque persona abbandoni il proprio paese per una di queste cause è da considerarsi migrante climatico?
È un nodo difficile da sciogliere. Eppure è necessario farlo, se vogliamo assicurarci di predisporre una qualche forma di tutela per queste persone. La International Organization for Migration ha più volte ribadito la necessità di individuare una definizione legale per le persone che lasciano i confini del paese di nascita per ragioni climatiche. È un passaggio fondamentale perché lo status di “migrante climatico” sia riconosciuto a livello internazionale e dunque si possano mettere in opera gli strumenti legislativi per proteggere queste persone.
La maggior parte delle migrazioni sono interne
Quando sono stato nel sud della Louisiana, per lavorare al mio ultimo libro, avevo fissato come tappa una piccola cittadina chiamata Isle de Jean Charles, e c’è mancato poco che non riuscissi a raggiungerla. Isle de Jean Charles, infatti, è una comunità che negli ultimi 50 anni ha perso più del 90% del proprio territorio. Colpa dell’innalzamento delle acque, ma anche del fatto che la Louisiana, da quando il Mississippi è chiuso dentro argini artificiali, non dispone più del ricambio di sedimento che permetteva di far fronte alla naturale subsidenza di un terreno giovane. In parole povere: la Louisiana si sta inabissando, sempre più persone vedono la propria casa lambita dalle acque del Golfo del Messico, molte sono già state costrette a trasferirsi altrove. Anche loro sono migranti climatici.
Un altro dato che è importante considerare è che la maggior parte delle migrazioni, in tutto il mondo, avviene all’interno dei confini nazionali. Questo significa che le persone, come del resto è intuibile, tendono prima a spostarsi all’interno del proprio paese, e solo in casi estremi si spingono ad attraversare confini. I cambiamenti climatici negli ultimi anni hanno moltiplicato il fenomeno della cosiddetta “dislocazione interna”, ed è probabile che questa tendenza aumenterà, e non solo nei paesi meno industrializzati. Il caso della Louisiana è paradigmatico: anche in assenza di desertificazione, cataclismi o collassi ecosistemici, ci sono zone che stanno diventando invivibili: vale per le comunità che sorgono in corrispondenza di coste sempre più erose dalle maree, come per quelle comunità agricole che vedono i propri terreni minacciati dalla risalita dell’acqua marina (come sta succedendo sul Delta del Po).
Per quanto riguarda le migrazioni interne, la Banca Mondiale prevede, entro il 2050, 216 milioni di persone in marcia all’interno dei confini statali in sei regioni (l’Africa sub-sahariana, l’Asia orientale, l’Asia meridionale, l’Africa settentrionale, l’America Latina, l’Europa dell’Est e l’Asia Centrale), ma sottolinea come una riduzione globale delle emissioni potrebbe ridurre questa crescita dell’80%.
Bisogna però anche tenere conto di una cosa: la migrazione è una strategia di adattamento in tutto il mondo animale, per molto tempo lo è stata anche per l’essere umano, e tornerà ad esserlo, per forza di cose, in un mondo in cui molte zone diventeranno progressivamente invivibili. Ma perché le migrazioni possano diventare uno strumento efficace per arginare i danni del cambiamento climatico, il nostro atteggiamento nei confronti dei flussi migratori dovrebbe cambiare. Al momento, però, sembra esserci un netto rafforzamento delle tradizionali resistenze.
Una prova generale per il futuro
Nel frattempo sul confine Polacco-Bielorusso, la situazione non accenna a sbloccarsi. La Polonia e l’Unione Europea accusano il governo di Minsk di aver facilitato l’arrivo dei migranti alle porte dell’Europa con l’obiettivo di fare pressione perché vengano rimosse le sanzioni imposte contro il governo Lukashenko. La Bielorussia, d’altronde, accusa l’Unione Europea di voler trovare scuse per giustificare la propria opposizione alle richieste d’asilo dei profughi.
Comunque sia, è difficile non intravedere in questo braccio di ferro una prova generale per la gestione di un fenomeno che è destinato a raggiungere proporzioni sempre più massicce in futuro. Basti pensare a come all’interno dell’Unione Europea alcune nazioni stiano modificando le proprie leggi in modo da rendere più semplice bloccare l’accesso ai migranti. Il governo britannico, ad esempio, ha introdotto una misura che solleva le autorità di confine da ogni responsabilità nel caso in cui non riescano a salvare migranti in mare. La stessa Polonia, solo qualche settimana fa, ha approvato una legge che consente alle autorità di respingere chi attraversa i confini in modo “irregolare”, salvo nel caso in cui arrivino direttamente (e dunque senza fare tappa da nessun’altra parte) da un paese in cui la loro vita sia messa a repentaglio. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani sostengono che l’emendamento violi la legge internazionale sui diritti umani, e quindi andrebbe affossato. La Polonia sembra però decisa a procedere in questa direzione, tanto che il parlamento polacco ha avvallato lo stanziamento di 353 milioni di euro per la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia.
Esempi di questo tipo si registrano in tutto il mondo, e sono indice di una chiara tendenza a irrobustire i confini per prepararsi a flussi migratori sempre più massicci. Ma si tratta di una strategia scellerata, non solo perché abbiamo prova di come barriere e respingimenti non arrestino i flussi migratori (rendono solo più rischiosi e letali gli spostamenti), ma anche perché abbiamo prova di come l’afflusso di migranti possa portare benefici al paese accogliente, sia dal punto di vista economico, che sociale e culturale.
In un mondo in cui centinaia di milioni di persone non potranno più vivere nel posto in cui hanno le radici, i confini dovranno diventare necessariamente più porosi, e i corridoi migratori dovranno essere gestiti in modo più efficiente e sicuro. Perché questo succeda, è prima necessario cambiare prospettiva, e liberarci della tossica convinzione secondo cui il posto in cui nasciamo ci appartenga, e chiunque ne valichi i confini sia per forza un invasore.