“Se ci penso mi viene lo schifo perché eravamo ti giuro cento cani sopra una gatta, una cosa di questo tipo l’avevo vista solo nei video porno. Eravamo troppi. Sinceramente mi sono schifato un poco ma che dovevo fare? La carne è carne”. Una conversazione agghiacciante comparsa nella chat dei sette ragazzi che si sono macchiati dello stupro di gruppo di Palermo. E che tutti conosciamo.
Quello che è successo in Sicilia lo scorso 7 luglio, dove una diciannovenne è stata violentata da sette giovanissimi ragazzi, è anzitutto un gravissimo episodio di violenza di genere. Che, a distanza di un paio di settimane, dimostra, con la freddezza dei numeri ed i femminicidi di Sofia Castelli e di Celine Frei Matzohl, l’abbassamento dell’età anagrafica delle vittime e dei loro carnefici.
Qualcuno ha maldestramente tentato di ridurre fatti di questo tipo alla non capacità di comprendere in pieno il significato delle parole che vengono utilizzate da questi soggetti. Che, poi, a dirla tutta, sono sette giovanissimi indagati per uno dei reati più gravi contro la persona che il nostro sistema penale prevede all'art. 609 octies C.p. . Quello della violenza sessuale di gruppo, peraltro nel caso di specie aggravata dalla condizione di minorata difesa della vittima.
La faccenda è molto complicata. E batte il terreno della dissonanza cognitiva e delle dinamiche di potere e controllo. “Falla bere che poi ci pensiamo noi”. Anche questa è una delle frasi della sera degli orrori. Parole messe in serie che i sette ragazzi avrebbero pronunciato al barman prima di stuprare a turno la ragazza. Niente a che fare con il sesso o con il porno, così come niente a che fare hanno l’amore e la gelosia con i femminicidi. In questa brutta storia ci sono una vittima ed i suoi carnefici.
Non bisogna però spostare troppo il focus. Agghiaccianti non sono solamente i messaggi scambiati nelle chat degli indagati, ma anche quanto commesso in danno di una giovane donna. Non bisogna perdere di vista quello che è successo e che quest’ultima ha subito. La ragazza ha riferito agli inquirenti di aver più volte ripetuto: “Non ce la faccio più”, ma i suoi carnefici le dicevano “ma quando mai non ce la fai più”. E continuavano a cambiarsi di posto. Mentre l’unico che conosceva del gruppo riprendeva con un cellulare.
Cancellata. Umiliata. Privata e violata nella sua dignità. Non da dei cani, ma dei coetanei. Con un nome ed un cognome. Che cosa li ha spinti a commettere un crimine simile? E a non assumersi alcun tipo di responsabilità emotiva dopo averlo fatto?
La dissonanza cognitiva degli stupratori
Una giovane donna di diciannove anni è stata stuprata da sette ragazzi. Sette, ma che nella logica distorta di quelle conversazioni, erano diventati cento. Ragazzi, e questo è ancor più spaventoso, che hanno eliminato qualsiasi identità di una coetanea. Per questo, gatta. Che, al massimo, in un contesto così, secondo loro poteva essere solo in grado di fare le fusa. Atroce anche solo poterlo pensare. Figuriamoci metterlo nero su bianco. Ma fin troppo reale rispetto alle dinamiche dei fatti di Palermo. Una donna trasformata in un oggetto, in un qualcosa di funzionale all’appagamento della loro sete di potere e delirio di onnipotenza. Non umana, per questo più semplice da usare anche dal punto di vista cognitivo. Qui subentra la psicologia criminale e stereotipata.
Paragonare una donna ad un oggetto consente di decurtarla di qualsiasi identità. In gergo tecnico, si chiama dissonanza cognitiva. Dettagliatamente, nel contesto delle oscure dinamiche legate agli stupri di gruppo, la dissonanza cognitiva svela un aspetto cruciale della psicologia degli autori. Che sperimentano uno squilibrio tra i loro comportamenti immorali e la percezione di sé come persone moralmente integre.
In quella notte di inizio luglio a Palermo, la disumanizzazione della ragazza – prima, dopo e durante lo stupro – è servita a conservare l’immagine di sé come individui rispettabili. Attenzione, questo non giustifica la loro posizione. La aggrava. E questo perché entra in gioco un altro meccanismo criminale. Sì, criminale. Perché nonostante si faccia fatica a ricondurre un simile episodio alla violenza contro le donne, che i fatti di cronaca mostrano continuamente sottoforma di femminicidio, anche quanto è successo a Palermo è da incasellare nel contesto non di una violenza in genere. Ma di una violenza di genere. E la differenza, lo sappiamo, non sta solamente nell’utilizzo di una preposizione semplice rispetto ad un'altra.
L’empowerment distorsivo degli stupratori
Dicevo, altro elemento che emerge preponderante è che lo stupro non ha niente a che vedere con il sesso. Così come i femminicidi non hanno niente a che fare con l’amore o la gelosia. Difatti, abusi di questo tipo vanno ben oltre l’atto sessuale in sé e coinvolgono direttamente il desiderio di affermazione del potere da parte degli aggressori. Siamo nel campo dell’empowerment distorsivo, per noi addetti ai lavori.
Un senso di potere e controllo che deriva dalla volontà di umiliare e degradare la vittima. Un senso che rafforza il delirio di onnipotenza. E che deriva dalla sensazione di dominare ogni singolo centimetro della donna caduta nella loro rete.
È chiaro, poi, che il gruppo intensifica e rafforza la dinamica: tutti i componenti si impegnano nel far sentire la vittima priva di scelta, se non quella di sottomettersi alla loro volontà. E siccome si tratta di un ingranaggio che funziona laddove tutte le sue componenti si incastrano alla perfezione, torna in campo, in questo contesto, la disumanizzazione della ragazza abusata. Lo stupro è altresì servito per sigillare un patto di lealtà e spirito di appartenenza. Loro che si sono sentiti virili. Forti. Potenti. E hanno, attraverso la dissonanza cognitiva, vissuto l’illusione di poter spartire la responsabilità e in qualche modo giustificare quanto commesso. Un disimpegno emotivo e morale dimostrato dall’inizio alla fine. Anche nella scelta di immortalare lo scempio in un video. Un disimpegno che mai hanno accantonato. I sette, dopo aver abbandonato la loro vittima inerme in mezzo alla strada, sono andati a fare colazione in una rosticceria.
Nessun branco, ma sette indagati per violenza sessuale di gruppo
Ho fatto cenno alla questione relativa all’uso errato delle parole. Che certamente esiste, ma batte un altro campo. Quello con cui si divulga l’informazione. Perché anche in questo contesto si rischia di fare il gioco degli stupratori e in generale del sistema di cui le donne cadono vittima. Stupratori che così devono essere chiamati. O, stando alle ordinanze di custodia cautelare, come indagati per violenza sessuale di gruppo. Che, ribadisco, è uno tra i reati più gravi che possano essere commessi contro la persona. Ce lo dice il Codice penale. Nello specifico, l’art. 609 octies c.p. prevede la reclusione da otto a quattordici anni per la violenza sessuale di gruppo. Il Gip di Palermo, poi, ha previsto anche l'aggravante della minorata difesa.
Non si può quindi riduttivamente parlare di branco. Perché, altrimenti, corriamo il rischio di metterci sullo stesso piano dei sette indagati. “Cento cani sopra una gatta”. Nessun cane e nessuna gatta. Sono ragazzi di età compresa tra i diciotto ed i ventidue anni che hanno violentato una ragazza di diciannove anni. Ed hanno ripreso tutto con un telefonino.
Perché non basta inasprire le pene?
Il codice rosso, entrato in vigore con la legge 69 del 2019, ha inasprito le pene previste per i reati commessi in danno delle donne in quanto donne. Da mesi la cronaca nera ci dimostra come in realtà la nuova normativa non abbia in alcun modo fermato l’ondata dei femminicidi. Che, di giorno in giorno, riempiono le pagine più nere del nostro Paese.
Gli stupratori, dopo aver appreso la notizia della denuncia, avevano addirittura progettato di inveire contro la ragazza. “Mi giro tutta via Libertà. Mi porto la denuncia nella borsetta e le dico. Guarda cosa mi hai fatto. Poi le do una testata sul naso”. Anche in questi frangenti è lampante. Il gruppo, la denigrazione che torna preponderante nella concezione distorta di giovani uomini. Totalmente incapaci di comprendere il danno non solo fisico, ma anche psicologico, emotivo, morale ad una ragazza poco più che diciannovenne.
Dunque, quanto accaduto a Palermo non fa altro che rafforzare il convincimento che per contrastare la violenza contro le donne, in qualsiasi forma essa avvenga, non è sufficiente inasprire le pene. Bisogna introdurre nelle scuole l’educazione al rispetto e alle emozioni. Fino a quando non si capirà che la rivoluzione deve partire dal basso ed essere culturale, le cose non cambieranno. Anzi, come è sotto gli occhi di tutti, adesso sono sempre più piccoli sia i carnefici che le vittime. Cosa stiamo aspettando ad investire nelle scuole? La violenza contro le donne non deve essere arginata, ma sradicata.